Roman J. Israel (Denzel Washington, nominato all’Oscar per il ruolo), avvocato nel nome della giustizia allo stato puro e della difesa di coloro che sono meno abbienti: la malattia del suo socio – di cui è sempre stato la potente ombra, senza mai esporre la propria faccia nelle aule di tribunale – e la crisi dello studio, più una società di beneficenza che altro, portano alla necessità di riciclarsi dopo 36 anni passati da “topo di biblioteca” della materia legale. I conti per Roman vanno fatti a questo punto con la giurisprudenza losangelina contemporanea: aggressiva, distante dalla sua visione della moralità e del dibattito per il rispetto dei diritti umani. Eppure la coerenza non è di questo mondo, cosa di cui lo stesso Roman prenderà necessariamente coscienza sulla propria pelle. Il Dio-denaro detta la tentazione, senza preoccuparsi di calpestare la correttezza e l’umanità: via flashback lo spettatore scopre la vicenda, ma sapendo sin dal principio che l’avvocato è reo e consapevole della sua scorrettezza, cosa scritta a chiare lettere su un documento che apre il film, battuto a macchina dallo stesso Roman, quale sua confessione per costituirsi alla polizia.
Denzel Washington nel ruolo di Roman si conferma un gigante della recitazione: un’altissima abilità di trasformismo, che quasi fa dimenticare che l’interprete del film sia proprio lui, tale è l’eclettismo estetico e interpretativo. Non a caso, l’attore ha avuto una nomination all’Oscar per il ruolo. Una cura sofisticata del dettaglio mimico e posturale, la camminata leggermente trascinata, il gonfiore fisico, le cuffiette portare perennemente tra collo e orecchie, quelle di spugna color cachi, tipiche degli anni ’80, accessorio costante insieme all’iconica montatura a goccia grande degli occhiali da vista. Washington recita accanto a Colin Farrell (George Pierce), che ha la parte di un altro avvocato, tutt’altra stirpe morale: un pescecane, che però l’attore irlandese non calca oltre l’involucro estetico e di contesto già palesi, risultando così efficace contraltare di Roman, anche nel momento in cui, ad un certo punto, le carte si sparigliano, sovvertendo quasi il sentire emotivo dei due uomini.
Tutto succede nella città degli Angeli, che in End of Justice non possiede però nulla di onirico: lo spazio urbano e d’azione di Roman sembrano più una periferia confusa che la Mecca del cinema, costruzione d’ambiente che naturalmente concorre a rafforzare il tutto. La trama rimane indubbiamente calata, più che mai, nel presente trumpismo dominante, in cui la sperequazione davanti alla Legge non si può considerare tema secondario, seppur molto personale il trattamento cinematografico da parte di questo film, che infatti ha subìto una seconda fase di montaggio per renderlo scorrere più sintetico e fluido.
Diretto dall’americano Dan Gilroy, che esordì con il premiatissimo Lo sciacallo (2014), il film, presentato al Toronto Film Festival lo scorso anno, esce nelle nostre sale il 31 maggio con Warner.
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