A Cannes vinse nel ’66 la Palma d’Oro con Signore & signori e quattro anni prima un premio come migliore commedia con Divorzio all’italiana, che gli fruttò anche l’Oscar. Ora Cannes Classics ricorda il regista non allineato, schivo e silenzioso, con il documentario Pietro Germi: il bravo, il bello, il cattivo, da un’idea di Manuela Tempesta, firmato da Claudio Bondì. “Il suo profilo, è stato ricostruito come un viaggio all’interno di un’esistenza mai rivelata, a partire dal non visto e dal non detto. Le immagini dei suoi film sono state integrate con immagini di repertorio delle Teche Rai, e materiali inediti scrupolosamente restaurati”, avverte l’autore del documentario. E a darci un intenso e ricco ritratto di un professionista scrupoloso e di un impareggiabile artigiano del cinema sono le testimonianze dei suoi attori: Lando Buzzanca Claudia Cardinale, Virna Lisi, Stefania Sandrelli, Elena Varzi; dei colleghi Pupi Avati e Carlo Lizzani; degli storici del cinema Adriano Aprà, Mario Sesti e Marco Vanelli, ma anche attraverso i suoi collaboratori e i familiari.
Il documentario, prodotto da Blue Film, Ascent Film e LA7, con il contributo della Regione Lazio, verrà mandato in onda in autunno da LA7 in autunno nella versione di un’ora e mezza, mentre una versione ridotta avrà un’anteprima a Parigi, il 29 luglio, in occasione di una retrospettiva dedicata a Germi.
Come ha raccontato l’intensa carriera artistica di Germi formata da 20 film?
Dovendo racchiuderla in una versione televisiva di 80 minuti e in una più ridotta per il cinema di un’ora, ho fatto una scelta, individuando tre momenti del suo percorso cinematografico. Il Germi cosiddetto neorealista, anche se non lo è mai stato, perché ha portato la scenografia neorealista all’interno di storie molto forti. Lui non faceva un cinema che mostrava come quello di Rossellini o De Sica. Poi individuo nel grande film di genere che include sia Il maledetto imbroglio e sia il trittico dell’invenzione della commedia all’italiana (Divorzio all’italiana, Sedotta e abbandonata e Signore & signori). E poi la parte finale, da Serafino in poi, quando Germi ricerca nuovi temi, senza però individuarli bene, tanto che le opere di questa fase sono in tono minore.
Germi non è stato snobbato e un po’ dimenticato dal mondo intellettuale di sinistra?
E’ vero ebbe difficoltà, ma con la critica in generale, sicuramente la sinistra aveva un’aria di supponenza nei confronti di un autore che era un solitario, difficilmente amalgamabile con altre consorterie e dunque non incasellabile. Forse anche perché faceva dei film, si diceva allora, che cedevano un po’ troppo al pubblico, non considerando che questo è anche l’obiettivo di chi fa cinema. Germi scontò anche un ostracismo, derivato anche dal fatto di non essere comunista, ma un socialdemocratico dichiarato.
Lo si può considerare un ‘cane sciolto’?
Direi una grande persona che aveva difficoltà a comunicare con gli altri, lui genovese riservato e molto timido. Riusciva a farlo solo con l’ira, non è un caso che gli attori ricordino le sue sfuriate. Oppure con persone che riteneva molto amiche, come Fellini, con le quali riusciva ad aprirsi. Ho scoperto che era amico anche di Gillo Pontecorvo.
Perché questo curioso titolo?
E’ uno scherzo. Germi era molto innamorato del cinema americano e di John Ford, in particolare del genere western. In fondo il suo In nome della legge è in realtà un western ambientato nella Sicilia del dopoguerra, ha il meccanismo del western. Allora ho voluto orecchiare il titolo del film di Sergio Leone e insieme affermare tre principi. Il bravo: tutti gli riconoscono che era un uomo che aveva perfetta conoscenza della grammatica cinematografica, non aveva dubbi, sapeva quel che voleva e l’otteneva. Il bello: lui si è cimentato come attore, sia nei suoi film sia in quelli dei colleghi, riscuotendo sempre una grande ammirazione dal pubblico femminile che lo ha considerato un bellissimo uomo, affascinate. Il cattivo: sono risaputi il suo carattere burrascoso e le sue sfuriate sul set. C’è un’intervista, che non ho usato, di Gastone Moschin, interprete di Signore & signori, in cui afferma che sul set Germi toglieva la pelle agli attori se s’accorgeva che qualcosa non funzionava
Tra suoi i progetti non realizzati c’è anche una sceneggiatura intitolata “Vita di Gesù”.
Non è una scoperta mia, ma dello storico del cinema Marco Vanelli che ha trovato questa sceneggiatura nel 2004, sfogliando il suo rapporto epistolare con don Zeno Saltini. Germi conosceva il fondatore di Nomadelfia perché era amico di Carlo Rustichelli, musicista dei suoi film che glielo aveva presentato. Germi aveva affidato a don Zeno questa sceneggiatura che aveva scritto nel 1944, in un momento difficile della storia italiana, quando si affacciava al mondo del cinema. Forse aveva anche collaborato in qualche modo a un film sui Dieci comandamenti che ebbe scarsa distribuzione.
Che cosa ha di particolare questa sceneggiatura?
Il fatto che Germi racconta la vita di Gesù da un punto di vista insolito, quello di Giuda. Germi ne fa proprio una necessità della storia, perché è proprio con Giuda che le cose sono andate come sappiamo. In fondo questo suo interesse coincide con il desiderio di registi famosi, talvolta realizzato, di cimentarsi con questa grande storia, anche se il suo riferimento a Giuda ha piuttosto una valenza letteraria che cinematografica.
Come ha recuperato i materiali visivi inediti?
Sono di proprietà della figlia Marialinda, ma ho utilizzato quelli che avevano mantenuto il sonoro e che è stato possibile restaurare. Si tratta di trailer di Alfredo Alfredo, Sedotta e abbandonata, e di alcuni provini per Serafino, Le castagne sono buone e Alfredo Alfredo. In coda al film ho messo anche alcuni frammenti ritrovati con il sonoro inutilizzabile, per esempio quello con Ottavia Piccolo.
Come ha scelto il commento musicale?
Ho voluto rispettare il binomio significativo formato da Pietro Germi e Carlo Rustichelli e che assomiglia molto alla coppia Fellini-Rota, Antonioni-Fusco. Perciò ho utilizzato le colonne sonore di Rustichelli, aggiungendo solo una marcia funebre, da me trovata, della banda di Ispica, suonata nel 1905 nel paese siciliano dopo il terremoto. Credo che questo motivo sia stato alla base dell’invenzione della musica di Divorzio all’italiana.
Come mai non c’è una testimonianza di Dustin Hoffman, interprete di “Alfredo Alfredo”?
Abbiamo provato a raccoglierla ma non ci siamo riusciti a causa degli impegni dell’attore americano. Comunque Enrico Lucherini, all’epoca press agent del film, ci ha parlato delle difficoltà che i due incontrarono durante la lavorazione del film, dovute alla lingua e forse anche dal fatto che Hoffman non si aspettava di lavorare con attori che recitavano in italiano. Tutto ciò creò una tensione che pesò sull’esito dell’opera.
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