Storia simbolica quella scelta dalla 33enne regista peruviana Claudia Llosa al suo secondo lungometraggio con Il canto di Paloma, Orso d’Oro all’ultimo Festival di Berlino, per raccontare il peso della guerra e delle violenze che il Perù, in particolare la comunità indios, porta dentro di sé. Il periodo incriminato è quello tra il 1980 e il 2000, quando il paese fu martoriato dal terrore di due formazioni guerrigliere Sendero Luminoso e il Movimento rivoluzionario Tupac Amaru in conflitto con le forze armate governative responsabili di massacri e violazioni dei diritti umani, soprattutto durante la presidenza di Alberto Fujimori. Un ventennio durante il quale si stimano in 69mila le vittime, tra morti e desaparecidos della violenza politica e della repressione statale. Un periodo purtroppo segnato da numerosi stupri, di cui sono state vittime soprattutto le donne appartenenti alle minoranze etniche.
E’ accaduto anche alla mamma di Fausta/Magaly Solier, la protagonista di Il canto di Paloma, mentre era incinta di lei. Fausta, che vive in una baraccopoli alla periferia di Lima, è stata allattata con ‘il latte del dolore’, così le è stata trasmessa una malattia chiamata ‘La teta asustada’ (letteralmente ‘la tetta spaventata’). La giovane porta dentro di sé il trauma indelebile dello stupro e dell’uccisione del padre, è come se la guerra non fosse mai finita. Così la donna, alla morte della madre, fa i conti con le sue paure e angosce che l’allontanao dagli altri e l’hanno spinta a inserire una patata, come protezione, nella sua vagina. Il film, nonostante il tema, è un commovente viaggio poetico, con accenni di realismo magico, attraverso la lenta guarigione di Fausta.
Il canto di Paloma, una produzione spagnola-peruviana in sala l’8 maggio distribuita da Archibald, ha anche il patrocinio di Amnesty International che lo promuoverà ritenendolo, come ha affermato Riccardo Nuri, responsabile della sezione italiana di Amnesty, “un’opera che fa parte di quei film che lanciano un messaggio di speranza, accanto agli altri che invece privilegiano la denuncia”.
Che rapporto ha avuto con la guerra intestina del Perù?
Il conflitto è nato con il terrorismo e ha colpito in modo più violento e più forte la zona andina rispetto alla capitale Lima dove sono nata e ho trascorso gran parte della mia vita. Ho vissuto questa situazione nell’età dell’adolescenza; all’epoca a Lima mancavano spesso acqua e luce, c’era il coprifuoco e tutto ciò era terribile e opprimente per me adolescente che mi sentivo dire spesso: “Stai attenta, non uscire”. Non ho mai pensato di raccontare questa mia storia personale, ma quella di Fausta che riceve la guerra come forma di eredità atavica dalla madre, avendola vissuta non direttamente, ma attraverso il corpo materno.
Come si è documentata rispetto alla sindrome di cui soffre Fausta?
E’ stato difficile trovare degli studi su questa malattia e sulle altre correlate con la guerra. Comunque è una sindrome reale, che è forte nell’immaginario andino, ma a Lima non è così esplicitata, non se ne parla apertamente, forse per paura, nonostante vi siano dati scientifici che ne suffragano l’esistenza. Psicoanalisti e psicologi accettano questa malattia sebbene non possano trattarla con i mezzi della loro professione, ma ricorrendo all’universo mitico andino per comunicare con le vittime.
Come interpreta questa ‘malattia’?
E’ il modo in cui un popolo riesce a parlare di qualcosa che l’ha fatto soffrire e che non riesce ad afferrare, solo così è possibile arrivare a una sorta di riparazione simbolica. Nel caso di Fausta non si capisce bene che cosa accada anche se la famiglia la protegge e ha cura di lei. Fausta passa dalla sfera dell’inconscio, con i suoi canti sussurrati, a una forma più consapevole quando riesce finalmente a cantare a voce alta e a liberarsi di una parte della ferita.
Nel film è evidente il contrasto tra modernità e tradizione.
Il canto in lingua quechua rappresenta lo sforzo perché questo universo andino non scompaia, un mondo che usa il suo passato ancestrale per sopravvivere. Queste comunità vivono isolate perché Lima ha sempre dato loro le spalle non considerandole entità. E il film è anche un invito al dialogo tra culture diverse, non è un caso che nella scena finale Fausta dica, rivolgendosi alla madre scomparsa: “Guarda anche il mare”, cioè un invito alla comunità andina a guardare alla costa, all’altro Perù.
La protagonista è aiutata nella sua ‘guarigione’ anche dai personaggi maschili.
Il personaggio di Fausta, che ha un’anima così potente, trova il suo corrispettivo nell’anima altrettanto potente di Noe il giardiniere e di suo zio che l’accompagna, l’aiuta, rispetta la sua volontà, nonostante non capisca il suo comportamento. Volevo infatti mostrare la capacità maschile di capire i problemi di questa giovane più di quanto siano in grado di farlo le donne.
Come è arrivato il finale?
Il finale è stato un po’ in dubbio, ma come sempre faccio ne ho parlato con la troupe. L’ultima scena mi serviva per mostrare la sessualità non solo come oltraggio e violazione, ma come scambio tra due elementi diversi, Non ho iniziato a scrivere la sceneggiatura pensando già a un lieto fine, piuttosto provando a rispondere alla domanda se ci fosse o no la possibilità di riprendersi dalla ferite della violenza.
Chi è l’autore delle ‘canzoni’ interpretate da Fausta?
Io ho scritto i testi, della melodia si è occupata invece Magaly. Non volevamo nulla che fosse collegabile con altre forme musicali peruviane. Abbiamo preferito una sorta di mantra, ripetuto da Fausta, sottolineando così il suo modo peculiare di cantare.
Perché ha voluto un’attrice così bella, quasi ‘estranea’ rispetto al contesto?
La bellezza di Magaly non è soltanto fisica, si trasmette attraverso la pelle, gli occhi è come se utilizzasse il suo corpo, nonostante il silenzio, per esprimere cose che non riesce a dire. La bellezza in assoluto aiuta poi a comunicare le cose più difficili, meno digeribili.
Le piace la versione italiana del titolo originale che rinviava alla sindrome?
Sì perché racchiude il senso profondo del film, riferendosi a quel canto di libertà, a quella ricerca della speranza. Il titolo originale, La teta asustada, funziona in Perù dove è subito compreso.
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