VENEZIA – “Oggi si parla della Grecia solo in relazione alla sua economia e al debito che ha nei confronti dell’Europa. Ho pensato che fosse arrivato il momento di sottolineare invece l’enorme eredità culturale che ci ha lasciato: è l’Europa ad essere debitrice nei confronti della Grecia, non il contrario”. Ecco perché Christophe Honoré, per il suo decimo film, ha scelto di attingere dalle Metamorfosi di Ovidio, riportando i miti greci in vita grazie a un cast di giovani attori sconosciuti che hanno immerso Giove, Europa, Bacco, Orfeo e Narciso nel verde della periferia urbana francese, e portato divinità e mostri nell’atmosfera magica di un sogno contemporaneo popolato di nudità. Il regista francese ha accompagnato oggi il film alle Giornate degli Autori.
Métamorphoses segna una piccola rottura rispetto al suo cinema precedente, cosa l’ha spinta verso questo adattamento da Ovidio?
Ho sempre amato le storie dei miti greci, mi piace esplorarli e ravvivarne la memoria. Trovavo poi molto attraente affrontare le metamorfosi come definizione stessa del cinema, un linguaggio che non fa altro che trasformare costantemente le cose in nuove forme.
È interessante la scelta di puntare su giovani attori amatoriali e non conosciuti dal pubblico.
Li ho scelti innanzitutto perché erano bravi, dopo un lunghissimo casting nel corso del quale ho incontrato tanta gente. Trovavo che fossero più credibili e veri loro degli attori professionisti, con cui il pubblico aveva familiarità. E poi non nego che provo un piacere, mi rendo conto un po’ paternalistico, nel rivelare nuovi talenti. Ad esempio ho lavorato con Léa Seydoux e Louis Garrel in La belle personne nel 2008, quando ancora non erano così famosi, soprattutto Léa.
Come ha affrontato la sfida di un adattamento così impegnativo?
Il mio desiderio era quello di fabbricare un meraviglioso ordinario, perché i mortali in Ovidio sanno che gli dei esistono e si muovono tra loro, noi invece non possiamo immaginare Gesù o Maometto che ci vengono a parlare. Cercavo il realismo nella straordinarietà, e infatti ho usato moltissimi effetti speciali, ma molto poco visibili. Non è Twilight, insomma.
Avrebbe senso se le citassi Pasolini di Decameron e, più in generale, della Trilogia della vita?
Direi proprio di sì. In Italia avete avuto cineasti come Pasolini, Visconti e Rossellini, che hanno esercitato un’enorme influenza sul cinema di tutto il mondo, e mi ha ispirato molto il progetto di Pasolini di riraccontare Le Mille e una notte, I racconti di Canterbury e Il Decameron creando una frizione tra un universo presente nella memoria collettiva e i giovani attori che gli danno vita.
Anche la location è decisiva in Métamorphoses.
In passato ho girato spesso i miei film in città, soprattutto a Parigi, stavolta avevo voglia di esplorare territori meno filmati, luoghi che solitamente si vedono nei Tg o sono protagonisti solo di riflessioni sociologiche. Io invece ho voluto raccontarli con poesia e lirismo, e descrivere la lotta tra natura e civilizzazione in spazi al confine tra l’urbanizzazione e i boschi, osservandoli come luoghi in corso di mutazione, in cui non sai se sta per vincere l’una o l’altra spinta.
Vive questo film come una rottura rispetto ai precedenti?
In realtà ci sono elementi di continuità, non solo di rottura. Diciamo che Métamorphoses non è un film contro i miei precedenti, ma cerca di guardare altrove. Anche perché ho sempre il timore di ripetermi e preferisco vivere il cinema sentendomi ‘incompetente’ e affrontando le storie senza essere sicuro di come farlo.
Questo film è anche una nuova occasione per riflettere sul tema dell’identità sessuale.
Sì, il rapporto con il corpo è essenziale e mi interrogo sulla frontiera tra uomo e donna mettendo in gioco il piacere e l’idea che oggi i nostri corpi non ci condannano più a una vita predefinita, lineare ma ci danno l’opportunità di vivere la realtà in modi diversi, magari come gli animali o gli alberi. Questo è anche un ritratto gioioso del piacere.
"Una pellicola schietta e a tratti brutale - si legge nella motivazione - che proietta lo spettatore in un dramma spesso ignorato: quello dei bambini soldato, derubati della propria infanzia e umanità"
"Non è assolutamente un mio pensiero che non ci si possa permettere in Italia due grandi Festival Internazionali come quelli di Venezia e di Roma. Anzi credo proprio che la moltiplicazione porti a un arricchimento. Ma è chiaro che una riflessione sulla valorizzazione e sulla diversa caratterizzazione degli appuntamenti cinematografici internazionali in Italia sia doverosa. È necessario fare sistema ed esprimere quali sono le necessità di settore al fine di valorizzare il cinema a livello internazionale"
“Non possiamo permetterci di far morire Venezia. E mi chiedo se possiamo davvero permetterci due grandi festival internazionali in Italia. Non ce l’ho con il Festival di Roma, a cui auguro ogni bene, ma una riflessione è d’obbligo”. Francesca Cima lancia la provocazione. L’occasione è il tradizionale dibattito organizzato dal Sncci alla Casa del Cinema. A metà strada tra la 71° Mostra, che si è conclusa da poche settimane, e il 9° Festival di Roma, che proprio lunedì prossimo annuncerà il suo programma all'Auditorium, gli addetti ai lavori lasciano trapelare un certo pessimismo. Stemperato solo dalla indubbia soddisfazione degli autori, da Francesco Munzi e Saverio Costanzo a Ivano De Matteo, che al Lido hanno trovato un ottimo trampolino
Una precisazione di Francesca Cima
I due registi tra i protagonisti della 71a Mostra che prenderanno parte al dibattito organizzato dai critici alla Casa del Cinema il 25 settembre