Christian Carmosino “Ma amare un detenuto è ancora tabù”


Coppie come tante, innamorate o in crisi, ma solo per un’ora alla settimana. Amori sotto il vincolo di burocrazie e controlli, con le speranze spezzate da un trasferimento improvviso, con l’emozione di un incontro appesa alla decisione di qualcun altro. Struggente, ma con il cuore tenuto a bada da un montaggio pieno di rigore, L’ora d’amore, di Andrea Appetito e Christian Carmosino, al Festival di Roma nella sezione L’Altro Cinema il 27 ottobre, è un documentario di 52′ girato a Rebibbia e prodotto dal Dipartimento Comunicazione e Spettacolo dell’Università Roma 3. Racconta tre storie (ma dovevano essere quattro e vedremo perché non lo sono) di relazioni nate e coltivate in una condizione di totale assenza di libertà. Faticosamente e qualche volta con dolore. Eppure gli autori insistono sulla normalità delle barriere. “Quelle vite somigliano alle nostre, il bisogno d’amore e l’incapacità di superare certe chiusure profonde appartengono a tutti noi”, dicono. Una conclusione a cui L’ora d’amore giunge dopo un cammino stratificato. Parte da un progetto formulato con la cineasta brasiliana Virginia Corsini, poi accantonato per ragioni produttive. Nasce come ricerca sui detenuti politici ma si sposta sui

comuni. Ha l’ambizione iniziale di raccontare gli “stratagemmi d’amore”, ma rinuncia a questa impostazione per concentrarsi più in generale sul “linguaggio d’amore in cui siamo diventati tutti balbuzienti per paura e conformismo”.

Mauro e la sua compagna Deborah s’incontrano una volta a settimana, insieme alla loro bambina, e vivono un amore messo tra parentesi in cui lei, che vive fuori, si sente reclusa quanto lui, ossessionato da fantasmi di un tradimento non impossibile. Fatima ama un altro carcerato e ogni settimana, per il colloquio, sopporta un’attesa interminabile e un viaggio da Rebibbia femminile a Rebibbia maschile che richiede quattro ore per percorrere 150 metri: ma lui viene trasferito e il colloquio si trasforma in una telefonata di cinque minuti a settimana. Angelo ha vissuto una relazione romantica, quasi adolescenziale, fatta di diari scambiati e baci rubati, con un altro carcerato eterosessuale che poi è uscito e l’ha abbandonato per mettersi con una donna, tornando alle convenzioni. Infine la quarta storia, quella di un detenuto in semilibertà, la storia che non c’è: “Non l’abbiamo potuta raccontare perché le donne che amano i semiliberi non vogliano rivelare alla società la condizione dei loro uomini. Ancora una volta la cosa più difficile dunque è uscire dagli schemi”, racconta a CinecittàNews Christian Carmosino, docente di regia e sceneggiatura, oltre che autore di documentari tra cui Gli invisibili sugli esordi nel cinema italiano degli anni 2000.

Dite di considerare “L’ora d’amore” un film sull’amore non solo in prigione, ma ovunque in questa società.
Sì, perché paure, limiti e convenzioni sono le stesse, in carcere e fuori. La paura che l’altro non provi quello che provi tu è solo enfatizzata dalla barriera fisica.

Però il carcere impedisce l’espressione della sessualità e nega il contatto.
È vero, e in questo l’istituzione è particolarmente dura. L’affettività è un bisogno primario, come il cibo e il sonno, quindi negarla è una pena che si aggiunge alla pena. In molti Stati, anche meno democratici del nostro, esistono le stanze dell’amore per i detenuti. Nel film siamo stati molto severi anche con l’eccessiva burocratizzazione, in carcere sei costretto a fare la “domandina” per qualsiasi cosa. Anche la richiesta ossessiva della data di nascita, che gli agenti conoscono benissimo, ha un effetto quasi grottesco.

C’è una scelta precisa di non parlare mai dei reati commessi dalle persone intervistate, di non raccontare la loro storia precedente.
I detenuti vengono sempre classificati per i reati commessi e c’è una morbosa curiosità verso questo aspetto. Invece per noi è importante quello che queste persone dicono di sé e non altro. Il meccanismo di definire un essere umano in base al crimine, come del resto quello di definirlo in base alla professione, è limitato e ipocrita.

I protagonisti del film verranno al festival?
Stiamo aspettando la risposta del magistrato di sorveglianza, ma speriamo di sì.

Continuerà a raccontare la realtà carceraria?
Mi piacerebbe girare un cortometraggio di finzione ispirato alla vicenda di Angelo, che lavora nel call center del 1254. Mi sembra così assurdo che qualcuno lo chiami, senza sapere che lui si trova in carcere naturalmente, per chiedergli in quale ristorante andare a cena la sera… Mentre Angelo non può uscire da lì.

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23 Ottobre 2008

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