L’attrice e fotografa torna a dirigere con il corto Molly Bloom, basato sul personaggio creato da James Joyce. Dopo una lettura scenica e uno spettacolo teatrale, Chiara Caselli dirige e interpreta la versione per il cinema, presente nella selezione Orizzonti all’ultima Mostra di Venezia, riproposta a Roma, alla Casa del Cinema, in una serata a lei dedicata. “L’operazione davvero complessa è stata di sceneggiatura, per arrivare ad una lunghezza che andasse bene per il cortometraggio, avendo come linea direttiva la struttura-non struttura del pensiero libero, una delle ragioni fondanti per le quali io sono in compagnia di Molly da sei anni. L’altra ragione è il personaggio. Nella scrittura di un corto avere due sfide di questo genere era davvero complesso perché poteva diventare o una storia lineare, perdendo quello che ha fatto Joyce, oppure il personaggio poteva risultare banale, invece Molly ha dentro un universo immenso, è una donnetta che porta in sé la miseria e la nobiltà, che fanno parte della natura umana”, così Chiara Caselli spiega la sfida della sua Molly Bloom.
Quando ha ‘incontrato’ per la prima volta Molly e come è giunta a portarla sul grande schermo?
L’ho incontrata a 12 anni, in teatro, interpretata da Piera Degli Esposti. La penso adesso, col senno di poi, come un semino che era stato piantato, rimasto al calduccio per tanti anni, quando, in una tarda primavera, Carmen Pignataro, direttrice dei Giardini della Filarmonica di Roma – nonché la produttrice di Piera Degli Esposti al tempo – ha fatto parlare per bocca mia quel germoglietto, proponendole appunto Molly Bloom come soggetto. Eppure, dopo l’esperienza teatrale da spettatrice, io non l’avevo mai letta, così tornata a casa ho preso l’Ulisse e ho detto: ‘My God!’. Da lì è iniziato il lavoro, difficilissimo, di adattamento per la prima lettura scenica.
Dalla lettura scenica, come è approdata alla forma cinematografica?
È stata una forma che ho sentito appartenere a Molly sin dall’inizio, perché quello che fa Joyce nell’ultimo capitolo è dare forma a ciò che forma non ha, cioè il pensiero. Ma se tu il tuo pensiero lo guardi, anche solo per un attimo, sicuramente lo senti pienissimo di parole, rumoroso, ma anche pieno di immagini. Quindi, nella direzione di Joyce, non nella mia, il cinema è sempre stato un obiettivo finale, perché arrivare all’immagine era mostrare l’altro mondo, non la figura di Molly che già c’era a teatro. Trovo Joyce altamente cinematografico, perché con la sua scrittura, tramite Molly che parla, immagina, sente per immagini.
Come s’inserisce in questo discorso la scelta di girare in inglese?
L’inglese è bellissimo. Se avessimo avuto il budget avrei fatto anche una versione in italiano. In italiano l’avrei fatta con una parlata più sporca, però.
Perché crede che Molly, come figura femminile, possa funzionare nella contemporaneità?
Funziona perché io l’ho vista funzionare da quando l’ho portata a teatro, nonostante non siano più i tempi in cui la portò Piera Degli Esposti, in cui c’era una disponibilità anche dei direttori dei teatri: oggi proporre Joyce e Molly Bloom li terrorizza, però poi riempi il teatro! Così, avvertendo le reazioni del pubblico normale, dal ragazzino alla signora anziana, molto fisiche e trasversali, ho compreso che, anche se Molly è figlia del suo periodo, in lei c’è un’universalità, insita nella sua umanità.
Le immagini riflettono la sua anima di fotografa. Eppure sembra ci sia anche un forte immaginario pittorico di riferimento.
Io non lo sapevo, me lo dicono gli altri che il mio modo di fotografare è pittorico. La consapevolezza non l’avevo a priori, nemmeno l’intenzione, ho fatto delle riflessioni dopo aver esposto varie volte, dopo le tante osservazioni delle persone in questa direzione. Forse la cosa è dovuta al fatto che il mio sguardo non è cresciuto nutrendosi di foto ma di pittura: i miei genitori, quando ero piccola, nonostante ammetta che mi annoiassi a morte, mi hanno portata molto alle mostre, agli Uffizi, nei musei, così i miei occhi, volenti, o nolenti, hanno acquisito il senso della composizione, dell’uso del colore, e forse ho metabolizzato queste cose. Di certo qui ho avuto la grandissima fortuna di incontrare un capace direttore della fotografia, Matteo Cocco, con il quale è nata una collaborazione di altissimo livello, d’ispirazione reciproca, di gioco.
Com’è stato il ritorno alla regia cinematografica, dopo il primo corto Per sempre, Nastro d’Argento nel 2000?
È stato moto naturale, la cosa più difficile è stata mettersi in scena, la cosa più bella dirigere gli altri. Sicuramente per la regia mi ha aiutata tanto l’esperienza degli ultimi dieci anni, dell’esporre le fotografie che realizzo; la cosa bella di questa esperienza, poi, è stata che io non realizzavo ritratti fotografici, perché è una cosa conturbante, e invece dopo questo progetto mi piace tantissimo. Molly ha innescato il piacere di confrontarmi con il volto.
Quindi, aveva pensato a far interpretare a un’altra attrice Molly?
Qui essere interprete era una scelta obbligata avendola portata in scena in teatro, ma fino a qualche mese prima di girare ero certa di affidare il ruolo a qualcun’altra, perché il mio desiderio non era comparire.
Ubulibri, In Beetween Art Film e Vivo film, come sono entrati nel progetto?
Jacopo Quadri di Ubu è stato il promotore, sin da subito, molto concreto nel finalizzare l’idea di fare il corto: se non ci fosse stato Jacopo non ci sarebbe stato il film. Con lui abbiamo fatto la domanda al ministero, che è andata a buon fine. Dopo questo ho conosciuto Beatrice Bulgari di In Beetween, entrata nel mondo di Molly soprattutto attraverso le fotografie, per cui c’è stato una sorta di colpo di fulmine. Lei è stata di parola, c’è stata sin dal primo giorno, appoggiandosi alla Vivo film di Marta Donzelli e Gregorio Paonessa, così si è creato un piccolo gruppo molto coeso con cui siamo arrivati alla fine.
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