Chi era costui?, potrebbero dire in tanti. E perché rivoltarne la memoria proprio adesso, visto che comunque una copia di Greed (in italiano Rapacità) si può vedere su diverse piattaforme? Domande legittime le cui risposte hanno però speciale attualità a fronte della rivoluzione seriale che ha cambiato ancora una volta la narrazione cinematografica, della crisi delle storiche Majors di Hollywood e perfino dell’eterno dibattito sul diritto di un autore nel difendere la sua opera. In questo “cold case” abbiamo dunque una vittima, numerosi sospetti e la ricerca del movente. Proviamo allora a mettere in fila gli indizi a partire dal protagonista, il sedicente Erich Oswald Hans Carl Maria Stroheim Graf von Nordenwald, nato a Vienna il 22 settembre 1885. In verità colui che sui manifesti appariva come “l’uomo che vorreste odiare” per le sue interpretazioni da crudele ufficiale austriaco o tedesco, era di umili origini, figlio di un cappellaio viennese. Sbarcato in America nel 1909 a cercare fortuna, mise radici a Los Angeles nel 1914, in quella terra di nessuno dove approdavano immigrati, cowboys, ebrei, pionieri del cinema e donne emancipate. Sedotto fin da giovane dalle divise e dall’arte militare, buon cavallerizzo e spadaccino (si dice), venne assunto come stuntman in Nascita di una nazione da Griffith e si fece notare in The Heart of Humanity (1918) di Allen Holubar, nel ruolo di un ufficiale tedesco che violentava un’infermiera e gettava dalla finestra un bambino piangente. Meglio di Donald Sutherland in Novecento, quanto a crudeltà. C’era ancora la Prima Guerra Mondiale e l’America faceva il tifo per i suoi soldati in prima linea sul fronte austro-tedesco.
L’avventura da regista di Erich, che nel frattempo ha preso l’autorevolezza e l’aria aristocratica di un vero Von (titolo di pura fantasia) comincia nel 1919 con Blind Husbands, un triangolo amoroso nella vecchia Europa, motivo che diverrà un suo marchio di fabbrica. Sotto contratto con la Universal dimostra tutto il suo talento con Femmine folli del 1921. Per chi frequenta la storia del cinema muto è già uno dei tre maestri dell’epoca, insieme a Chaplin e Keaton, sulle orme del pioniere David W. Griffith. I produttori gli danno fiducia anche perché propone storie della mitteleuropa che hanno grande presa sul pubblico, da Donne viennesi a La vedova allegra. Ma per dirigere quest’ultimo impone al produttore Samuel Goldwin (nel frattempo ha litigato con Irving Thalberg e lasciato la Universal) di dare la precedenza al suo sogno assoluto: Greed dal romanzo naturalista di Frank Morris.
L’avventura di Greed/Rapacità comincia con un trucco: Stroheim si impegna a girare il film in non più di 14 settimane (si era preso 11 mesi per Femmine folli), con meno di 2600 metri di pellicola, e un budget modesto. Inoltre non chiede nessun teatro di posa, ripromettendosi di girare dal vero a San Francisco e nella Death Valley, i luoghi del romanzo. In realtà sarà sul set da marzo a ottobre (198 giorni) usando 85 ore di pellicola. Alla fine di gennaio mostrerà ai produttori una versione di circa 10 ore, immediatamente definita un capolavoro, ma considerata improponibile per la distribuzione: una vera mini-serie con gli occhi di oggi. Tuttavia il regista accetta di fare dei tagli e si ripresenta con 24 rulli, proponendo di proiettarlo in due parti. Ma nel frattempo Goldwyn ha fuso la società con Louis B. Mayer e alla testa della Metro Goldwyn Mayer è arrivato proprio Thalberg, il suo nemico giurato. Così i montatori si avvicendano, Stroheim disconosce la versione preparata dalla sua più fida collaboratrice (June Mathis), il film è ridotto a brandelli ed esce, senza alcun successo, in una versione di 10 rulli. Quando lo vede, l’autore con le lacrime agli occhi sussurra: “Non è possibile, è un delitto!” Per la sua carriera dietro la macchina da presa è la fine: i tre film successivi resteranno incompiuti, Gloria Swanson lo caccerà addirittura dal set durante le riprese del “suo” Queen Kelly. Ricomincerà da attore e molti adesso lo ricordano per le memorabili interpretazioni in La grande illusione di Renoir, I cinque segreti del deserto di Wilder e, soprattutto, Viale del tramonto in cui giganteggia come regista, marito e maggiordomo per Gloria Swanson. Morirà in solitudine a Maurepas, a pochi chilometri dalla reggia di Versailles, il 12 maggio del 1957.
Cosa fa di Greed un capolavoro e la vera vittima di questo delitto nonostante l’amorevole tentativo di ricostruzione compiuto nel 1999 salvando il salvabile con una versione di 239 minuti? Una modernità dello stile allora sconvolgente con l’uso spregiudicato del montaggio influenzato dalle scoperte del cinema russo, la passione tanto libera quanto maniacale per i dettagli (a San Francisco mescola attori in costume con sfondi più che realistici, ma ferma una scena perché un cameriere sullo sfondo non ha i guanti bianchi), l’attenzione – è la prima volta – ai “totali” contrapposti ai primi piani con ampio uso di simboli e metafore visuali, il crudo realismo (nella Death Valley rischiarono la pelle in molti per l’eccessivo calore) e la spietata critica all’arrivismo e alla rapacità della nuova società americana. Basta un colpo di fortuna – la vincita alla lotteria – per spezzare l’amicizia tra il protagonista Mac Teague e il suo compagno d’avventure Marcus; ed è la stessa sete di ricchezza a trasformare in un’arpia Trina, la moglie che Mac ha rubato a Marcus, fino al tremendo finale in cui i due antichi sodali muoiono nel deserto, ammanettati insieme, dopo un duello mortale per mettere le mani su una bisaccia piena d’oro. Per sottolineare come sia il denaro a corrompere gli individui, Stroheim decise di colorare di giallo-oro alcuni dettagli della pellicola, anticipando la sua modernissima idea del colore che si ritroverà nell’incompiuto Queen Kelly.
Chiunque veda Greed, perfino nella maciullata versione in distribuzione, non può che cedere al fascino rivoluzionario di questa danza mortale nel cuore del lato oscuro dell’America.Viene voglia di dar ragione a Mario Monicelli quando diceva: “Nel cinema muto si raccontava tutto col silenzio, senza dialogo, senza battute. Ci sono film adesso che hanno successo perché c’è una canzone: non so cosa c’entri il cinema! Oppure perché c’è un effetto speciale, insomma il cinema non c’entra più tanto!”. E in questo giardino perduto senza dubbio Erich Von Stroheim è stato un re sfregiato. Nessuno potrà più ridargli la corona, ma la memoria gli spetta: oggi ci vediamo in quella saletta della MGM, sfiniti dopo 10 ore di proiezione, ma convinti – come due fortunati critici di allora – di aver visto da vicino tutta la forza evocativa del cinema.
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