Impossibile festeggiare il compleanno di Adriano Celentano (milanese della Via Gluck, nato il 6 gennaio 1938) senza guardare anche alla sua “altra faccia”, quella di artista totale che lascia un’impronta personalissima nello spettacolo televisivo, ma anche nel cinema con ben 43 apparizioni – dirette e indirette – sullo schermo.
Quattro volte da regista più una per il cartoon su se stesso (Adrian, 2019 con una tempestosa messa in onda su Mediaset), sette colonne sonore, almeno cinque film in cui offre la sua maschera migliore a registi di forte personalità, moltissimi successi al box office con Piero Vivarelli, Sergio Corbucci, Castellano&Pipolo tra gli altri. Ma anche un autentico fenomeno televisivo tra le memorabili “pause” di “Fantastico” fino a “Realpolitik”: difficile negargli un impatto assoluto anche in altri media che non siano il suo naturale territorio di caccia, la musica.
Si dice sempre che la sua “scoperta” da parte del grande pubblico data al 1960 quando la sua spettacolare intrusione nella fantasiosa Via Veneto della Dolce vita di Fellini fece clamore quasi quanto l’icona di Anita Ekberg nella Fontana di Trevi. Ma il pubblico milanese del Santa Tecla e perfino dell’allora Palazzo del ghiaccio di Via Piranesi lo idolatrava già da almeno tre anni, dai tempi in cui divideva la scena con il futuro Little Tony e poi con Giorgio Gaber, da quando spopolava nel mondo del 45giri con Ciao ti dirò, da quando aveva strappato a Jack la Cayenne il soprannome di “Molleggiato” e il suo rock alla Bill Haley (“Rock around the clock”) furoreggiava grazie a un grammelot linguistico antesignano di Dario Fo.
Un anno dopo, nel 1961, sarebbe approdato al palco di Sanremo con 24 mila baci (in coppia con Little Tony) e non è un caso che la canzone fosse firmata dal cinematografaro Piero Vivarelli, uno dei geni più irregolari e sottovalutati di quella stagione. Era stato proprio Vivarelli a farlo debuttare al cinema consigliando al suo sodale Lucio Fulci di impiegarlo nel cast di un autentico “musicarello” ante litteram del 1956 come I ragazzi del juke box scritto da Vivarelli e intitolato come la canzone di Adriano che compariva sul Lato B di Il tuo bacio è come un rock. A seguire, nel ’59 arrivano un altro paio di musicarelli fino all’applaudito Urlatori alla sbarra firmato ancora da Lucio Fulci nel 1960, lo stesso anno de La dolce vita. A rileggere il cast di questo umile “musicarello” che però fece grande successo nonostante un impensabile divieto ai minori di 18 anni, si ha l’impressione che per la prima volta i mondi della musica leggera e del cinema arrivassero a contatto: c’erano Mina e Chet Baker, debuttavano Lino Banfi e Marilù Tolo, apparivano Garine&Giovannini a fianco di Gorny Kramer (il maestro Bramer!) e Gino Landi, Elke Sommer dava la replica a Joe Sentieri, Mario Carotenuto disegnava il suo immutabile personaggio di “Cumenda” e Gianni Meccia vestiva i panni del cameriere canterino mentre Umberto Bindi si nascondeva dietro il nome d’arte di Agonia.
Da lì in poi il nome Celentano in cartellone è un passe partout anche per il cinema italiano; non a caso Adriano si permette nel 1964 di debuttare da regista con Super rapina a Milano, originale meta-film in cui la paradossale trama poliziesca si rivela alla fine una burla da cinema. Purtroppo si tratta di un gioco troppo in anticipo sui tempi che finisce in un fiasco completo nonostante la supervisione di Vivarelli (produttore e regista-ombra) e un cast di fedelissimi del Clan Celentano tra cui, per la seconda volta, il Molleggiato fa coppia con la fresca moglie, Claudia Mori. Perché Cinecittà riapra le porte al cantante che miete successi ovunque, ma non più al cinema, passeranno quattro anni. Quando Pietro Germi scommette su di lui come protagonista del film-fiaba Serafino (1968). Raccontano che il primo provino fosse stato un disastro e che Germi sostenesse che “con quella faccia da gangster di periferia quello va bene solo per i polizieschi”; ma alla fine il Candide di campagna che Germi voleva ebbe proprio il sorriso contagioso di Adriano: il film fu portato in trionfo dal pubblico (più di tre miliardi di lire) e il “serafino” divenne un capo di moda come il “dolcevita” felliniano. Grazie a Sergio Corbucci che già lo aveva voluto per la commedia Il monaco di Monza del 1963, riparte da qui la seconda vita cinematografica del Nostro: guappo romanesco in Er più, comunista senza soldi di Bianco, rosso e… (regia di Alberto Lattuada), ladro ottocentesco e poco patriottico per Dario Argento in Le cinque giornate, mitico Rugantino per Pasquale Festa Campanile.
Ma nessuna di queste incursioni del cinema degli autori è comparabile alla carriera musicale. Bisogna aspettare la trasformazione della commedia per rivedere Celentano sugli allori. Accade dopo la metà degli anni ’70 quando viene arruolato in una serie di film da grande pubblico con partner amatissimi dagli italiani del riflusso, con il sodalizio tra lui e Castellano&Pipolo (da Mani di velluto a Il bisbetico domato a Grand Hotel Excelsior). Nel frattempo però lo showman è diventato adulto e non ha rinunciato alle velleità di autore di se stesso. Nel 1975 torna dietro la macchina da presa con Yuppi Du (scritto insieme al soggettista Alberto Silvestri), immaginato come un musical degno di Broadway, impreziosito da un cast internazionale con Charlotte Rampling a sovrastare la prima attrice Claudia Mori. Amato dal pubblico, selezionato al festival di Cannes, premiato col Nastro d’argento per la colonna sonora, è diventato un film-culto tanto da meritare un director’s cut preparato per la Mostra di Venezia del 2008 e poi uscito per la prima volta in home video. Le regie seguenti (Geppo il folle e Joan Lui a cavallo tra gli anni ’70 e ’80) non hanno avuto gli stessi consensi, anche perché nel frattempo l’occhio di Celentano si stava spostando sulla tv che ne avrebbe fatto un fenomeno originale fin dal 1987 con le celebri “pause” nei monologhi di “Fantastico”, lo show principe del sabato sera della Rai. I suoi ritorni al piccolo schermo, centellinati e costruiti con una speciale sensibilità di marketing autoprodotto, caratterizzano la tv degli anni ’90 fino al celebre incontro in scena con gli amici Dario Fo, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber e Antonio Albanese nel 2001 e poi con le vene messianiche di “Realpolitik” (su Raiuno) del 2005 e di “Rock Economy” (su Mediaset) del 2012.
Passato il capo degli 80 anni Adriano sembra scomparso dal video e dal grande schermo (l’ultimo film da attore, Jackpot di Mario Orfini, è del 1992, l’ultima sua creazione Adrian è del 2019): ma con uno così puoi forse predire il futuro? Una sorpresa è sempre dietro l’angolo, il suo “Ultimo Urrah”!
Alle soglie delle presidenziali americane, ripercorriamo tutti i titoli più importanti con cui il cinema ci ha raccontato la politica Usa e i suoi dirty tricks
Al Festival di Cannes, in programma dal 14 al 25 maggio, il ritorno di tre leggende. L’ultimo hurrah di una generazione fiorita negli anni ’70 e capace di imprimere un marchio indelebile alla cultura del secolo?
L’avventurosa storia della Metro Goldwyn Mayer, una fabbrica di sogni nata il 17 aprile 1924
John Milius si definisce “un anarchico Zen e un samurai americano” ed è in questo impasto di culture e contraddizioni che bisogna indagare per capire la grandezza e la segreta follia dello sceneggiatore di Apocalypse now