CANNES – Osannato dalla critica (Le Monde l’ha definito “magnifique”) e acconto con applausi scoscianti all’unica proiezione, che riuniva giornalisti e pubblico pagante in un orario improbabile, data la durata di tre ore e 16′, Winter Sleep, il nuovo film del maestro turco Nuri Bilge Ceylan (I climi, C’era una volta in Anatolia) si accredita per un premio importante (e avendo già vinto il Grand Prix du Jury, fate voi…). I riferimenti più citati, per questo lavoro da camera fatto di dialoghi e interni, che mescola scene da un matrimonio e amore per il teatro, sono Bergman e Shakespeare, ma il cineasta è partito insieme alla moglie e co-sceneggiatrice Ebru Ceylan da alcuni racconti di Cechov. Protagonista della vicenda è Aydin (Aluk Bilginer), un grande attore in pensione che ora gestisce un piccolo hotel in Cappadocia con la giovane e infelice moglie Nihal (Melisa Sozen). L’uomo nutre la sua vanità scrivendo articoli per la stampa locale e progettando una storia del teatro turco. Molto benestante e grande conversatore, oltre che manipolatore, ama ascoltarsi e non teme confronti dialettici. Con lui e con sua moglie vive anche la sorella Necla, ferita e amareggiata dal suo recente di divorzio e piena di animosità verso il fratello. Ma un incidente apparentemente futile – un ragazzino tira un sasso contro il finestrino della sua auto – rivelerà a poco a poco la vera natura di Aydin così come le intenzioni degli altri personaggi.
Ceylan racconta di aver lasciato stavolta briglia sciolta alla sua passione per i dialoghi teatrali e letterari, passione che finora aveva tenuto a bada temendo che fossero poco cinematografici, mentre Bilginer scherza sulla sceneggiatura, “spessa e pesante come un elenco del telefono, tanto che abbiamo girato 300 ore ridotte poi a poco più di tre al montaggio”. Nessun riferimento, neppure indiretto, alla difficile situazione politica della Turchia. “Ho bisogno di tempo per digerire le cose, forse potrò occuparmene tra tre anni – dice il regista – Ma quello che sta accadendo oggi nel mio paese si può spiegare basandosi sulla natura umana, che è uguale ovunque nel mondo e che era così anche ai tempi di Cechov”. E aggiunge: “Un regista deve avere uno sguardo più ampio, ha doveri diversi da giornalista, deve rivolgersi all’animo dello spettatore… Io, se posso trasmettere qualche sentimento a chi guarda i miei film, magari un sentimento di vergogna, sento di aver già fatto una gran cosa. Col mio cinema tento di comprendere l’animo umano”.
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