Cary Fukunaga: gli orrori della guerra su Netflix

Cary Fukunaga è conosciuto al grande pubblico per aver diretto la serie televisiva True Detective, di grande successo anche nel nostro paese.


A Venezia 72 apre il Concorso con Beasts of No Nation, tratto dal romanzo best-seller dallo stesso titolo (in Italia ‘Bestie senza patria’), scritto da Uzodinma Iweala. E’ un dramma molto crudo sull’iniziazione di un bambino africano alla dura vita del combattente. In un villaggio dell’Africa occidentale, dove è in corso una guerra civile, vive il piccolo Agu con la sua famiglia. Quando il suo villaggio viene attaccato dai guerriglieri, Agu assiste al brutale omicidio del padre e si ritrova a soli nove anni a diventare un bambino soldato, arruolato a forza tra i mercenari e guidato nel combattimento da un losco comandante, interpretato da Idris Elba che ha anche parzialmente prodotto il film. Il piccolo Agu è interpretato dallo straordinario e intenso Abraham Attah. Particolarità della pellicola è che verrà distribuita su Netflix, il servizio di Video on Demand che sta prendendo sempre più piede su scala internazionale, con un’uscita in contemporanea nelle sale americane (uscita prevista il 16 ottobre 2015, dopo che il film sarà presentato anche a Toronto).

Perché ha deciso di trattare questo argomento?

All’Università studiavo Scienze Politiche, è quello il mio background. Quindi la geopolitica e i conflitti nei paesi del neo-colonialismo li ho studiati con molta attenzione, sono consapevole delle problematiche che esistono da quelle parti. Quando sono entrato alla NY University per studiare cinema già avevo in mente di fare qualcosa sull’argomento. Ma solo nel 2005 un amico mi ha regalato il libro e ho capito che quella era la storia che volevo raccontare.

Quanto è rimasto fedele al materiale letterario?

Ho usato le mie conoscenze per coprire alcune ‘lacune’ o elementi che nel romanzo non venivano raccontati. Ad esempio il libro non traccia molto il contesto. In quel caso funziona ma il film necessitava di maggiori dettagli, per cui ho fatto riferimento alle mie ricerche sulla Liberia, ho contestualizzato la storia in Ghana.

Ha scelto degli attori straordinari, in particolare il piccolo protagonista. Come ha lavorato con lui?

I responsabili del casting hanno visto circa 600 ragazzi, io almeno 100 in video e 50 di persona. Abbiamo asciugato la selezione fino a 20. Ce n’era una molto brava, ad esempio, che aveva già avuto esperienze di recitazione a teatro. Li ho fatti improvvisare insieme, perché capissero bene cosa dovevano fare e tirare fuori la loro energia. Abraham ha inventato molte scene: ad esempio quella in cui gli portano via la sorella e lui si mette a piangere. Riusciva a farlo semplicemente pensando alla sua famiglia. Ed era veramente spaventato di dover girare nella giungla perché temeva lo mordesse un serpente.

Alcune sequenze di cui è protagonista sono veramente molto violente. Come è riuscito a fargliele interpretare senza traumatizzarlo e minarne la purezza?

Sicuramente mi sono posto dei problemi etici. Nel cast c’erano anche dei ragazzi che avevano veramente combattuto in Liberia e temevamo che rimettere in scena quegli episodi potesse scatenare in loro delle risposte psicologicamente drammatiche. Ma per fortuna tutto è andato per il meglio. Doveta calcolare che l’impressione che si ha vedendo un film è diversa rispetto a quella che si ha girandolo. Sul set è tutto rarefatto, spezzettato, le emozioni non sono così intense come quelle che prova uno spettatore. In una scena lui uccide una donna che pensa essere sua madre. Ma sul set non c’era sangue. In un’altra deve spaccare il cranio a un uomo con un machete. Ma era divertente perché lo stuntman gli diceva “dai, colpiscimi più forte”, e lui ha assestato un colpo che lo ha mezzo tramortito. Poi hanno riso. Abraham ha visto il film in un montaggio grezzo e gli è piaciuto, specie la sparatoria nella giungla.

Quanto c’entrano politica e religione in questo genere di conflitti?

Il fenomeno Isis era appena iniziato quando ho cominciato a realizzare il film, ma certo ci sono delle analogie perché si tratta di infrastrutture che lavorano sulla psicologia umana per indottrinare i giovani. Ho cercato di evitare la religione perché credo sia stata fin troppo utilizzata. Non volevo che si riducesse a un conflitto tra Islam e Cristianesimo o cose del genere.

L’ha influenzata sapere che il film sarebbe stato distribuito da Netflix?

No, perché la compagnia è stata coinvolta solo alla fine del processo produttivo e di montaggio, quindi non ha avuto alcun effetto sulla finalizzazione.

Parliamo del personaggio di Idris Elba. Il Comandante è certamente una figura negativa, ma di grande fascino…

Nel romanzo è un personaggio molto indefinito, si sa cosa fa ai ragazzi e come opera per l’iniziazione, ma è una figura sfuggevole e incerta. Letterariamente funziona, lo si può adattare al viaggio psicologico del protagonista, ma nel film ho dovuto cercare una direzione diversa, era necessario fortificarne i tratti. Mi sono ispirato a un tizio che avevo incontrato ad Haiti, era un leader carismatico che governava le forze ribelli, era il sopravvissuto di una gang e ancora comandava un gruppo di suoi vicini. Lo vedevi uscire dalla foresta con i rasta e a bordo di una bicicletta sgangherata. Sembrava bello. Ci abbiamo parlato e abbiamo cercato di capire cosa voleva, qual era la sua voce politica. Dopo ho saputo che aveva commesso dei crimini gravi e ucciso diverse persone. Mi sono ricordato di lui, mi sono chiesto ‘ma perché le persone lo seguono’? Non volevo che il mio Comandante fosse solo un dittatore. Volevo che fosse più simile a un ‘padrone della Terra’, che fosse lo strumento perfetto da usare sul territorio.

Senza svelare il finale, ha cambiato anche il suo destino, rispetto al libro…

Nella versione originale della sceneggiatura veniva ucciso da Agu, ma ho pensato che fosse troppo facile: l’uccisione del bullo. Lasciarlo in vita è più spaventoso. Volevo che restasse un potenziale pericolo.

C’è anche un altro film a Venezia che parla di violenza sui minori, Spotlight. Pensa che il cinema possa contribuire a combatterla?

Penso che i film abbiamo il potere di rendere il mondo più civile e instaurare dei pensieri positivi, suscitando consapevolezza. Il problema è che la guerra è un’industria, genera profitto. Non c’entrano i motivi religiosi. I combattenti del Niger arrivano a guadagnare moltissimo, è il loro lavoro in una zona dove regna la povertà. Come far sì che il governo non usi i bambini in guerra? E le cose cambierebbero, se cambiasse il governo? L’unica soluzione sarebbe eliminare del tutto i conflitti.

Pensa che il successo di piattaforme come Netflix possano cambiare il modo di percepire e fruire il cinema?

Non bisognerebbe mai cedere alla tentazione di guardare un film a spizzichi e bocconi, interrompendolo per fare altro. Fatto sta che la distribuzione sta già cambiando. Far vedere un film oggi è molto difficile. La gente non sa nemmeno che esiste se non ci sono molti riflettori puntati sopra. D’altro canto i nuovi mezzi di distribuzione sono più interattivi e permettono al pubblico di far comprendere in maniera immediata ai distributori quali tipi di prodotti preferisce guardare.

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03 Settembre 2015

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