Carola Spadoni: le mie eroine gandhiane


Non è l’India più conosciuta, new age o dello sviluppo tecnologico di internet o delle vedove messe al bando e arse vive, quella mostrata dalla filmmaker e artista visiva Carola Spadoni nel suo documentario Meeting the S.E.W.A Movement, in programma alla Mostra del Nuovo cinema di Pesaro, nella sezione ‘Bande à part’ il 28 giugno.

E un viaggio in soggettiva nell’India odierna attraverso le donne associate al S.E.W.A, il sindacato nato alla metà degli anni ’70 nella città industriale di Ahmedabad. Vi aderiscono 700mila lavoratrici informali, cioè fuori dal sistema del lavoro salariato e dal welfare: facchine, raccoglitrici di carta per riciclo, portatrici d’acqua, venditrici per strada di verdura, operaie che fabbricano bidi e incenso.

Donne di ogni età, spesso prive di istruzione e fuori casta, il cui guadagno giornaliero non va oltre i 2 euro, ma sostenute dal sindacato nel loro processo per una dignitosa integrazione e per radicarne l’autostima. Meeting the S.E.W.A Movement è un documentario autoprodotto: la post produzione è stata portata a termine grazie al Museo Mart di Trento e Rovereto e al sostegno al progetto dei collaboratori.

 

L’incontro con il Sewa è stato del tutto casuale?

Ero arrivata in India da 5 giorni, e ad Ahmedabad stavo facendo una tappa di viaggio tra Bombay e il Rajasthan. Dovevo rimanere un giorno e mezzo, camminando sono entrata nel Reception Center del Sewa, c’è una sorta di negozietto al piano terra. Da li mi sono incuriosita, e visto che avevo dietro la mia videocamera…

 

Quali difficoltà ha incontrato nel realizzare il documentario?

Nessuna, mi sono presentata ad una coordinatrice del Sewa, che poi è Pratibha Pandya la persona che nel documentario ci narra del Sewa tra un incontro e l’altro con le varie associate, e lei ha capito che avevo una seria intenzione di raccontare questa storia. Dal giorno successivo mi ha assegnato una sua dipendente per farmi da traduttrice e portarmi a conoscere in giro per Ahmedabad delle lavoratrici associate al Sewa. Abbiamo cominciato da subito, il rapporto con loro è stato molto diretto ed immediato, più ricevevo informazioni più andavo avanti con il materiale. Però non era sempre facile far parlare e confidare i propri affari ad una occidentale sconosciuta, quindi anche molta pazienza, da regista nel metterle a proprio agio ed anche una buona capacità di instaurare una complicità femminile. Al montaggio ho mantenuto i momenti di esitazione nel rispondere o nel formulare correttamente alcune domande, perché si sentisse questa freschezza nella realizzazione del lavoro, che mantiene un taglio diverso dal tipico documentario televisivo, rivela una forte empatia allo spettatore.

 

Che cosa l’ha colpita di queste donne?

La caparbietà a migliorare la qualità della propria vita con i propri mezzi. L’efficienza gandhiana, molto lucida nel discernere problemi reali e non, pratica e tranquilla. Quello che un po’ di tempo fa si chiamava emancipazione, che non a caso avviene in un paese in via di ipersviluppo e di tradizioni antichissime come l’India.

 

A noi occidentali che cosa comunica questa esperienza?

Conferma la necessità di uno sviluppo economico compatibile con l’ambiente e la compagine sociale, che sia inclusivo nella mobilità sociale e non esclusivo. Conferma la necessità del microcredito, dell’assistenza sociale a tutto tondo non in termini di mera elargizione statale, ma per costruire assetti che rinforzino la capacità dell’individuo e del gruppo di autosostenersi e vivere una vita dignitosa. Il contrario di quanto sta succedendo in Italia per esempio. Poi è ciò che è diventato un tema più diffuso e un discorso di establishment da quando ne parla Obama.

 

Come definirebbe il suo lavoro?

Forse un documentario d’informazione sul nuovo mondo. Quello che già esiste, ma se ne sa poco e niente, e quello che continua ad essere possibile, usando il modus operandi del Sewa come parametro di sviluppo compatibile. Come si sa il cinema e soprattutto il documentario in questi anni hanno fatto molta più informazione dei telegiornali o delle tv, da Michael Moore a Fast Food Nation.

 

Come comincia questo suo viaggio indiano?

Con la scena di un matrimonio per le strade di Bombay, seguita subito dopo dall’incontro che ho avuto su una barca per visitare delle grotte di fronte alla città. Un gruppo di ragazze indiane si presenta dicendo i loro nomi, e comincia un breve dialogo con una di loro che mi chiede se sono cattolica. Poi si entra subito al mercato di verdure gestito dal Sewa. Qui assistiamo alla vendita di un partita di verdure, che avviene con un metodo segreto, dove il migliore offerente vince l’intera partita di verdure. Come dicevo prima, ho mantenuto sempre una certa freschezza soggettiva.

 

Ha lavorato sulle immagini per ricreare l’atmosfera dei musical di Bollywood.

Quell’aura dai forti colori pastello, fucsia, giallo limone, turchese. E stato un lavoro fatto in post produzione, in fase di correzione colore. Colori molto accesi che in India si vedono spesso nel vestiario, negli ornamenti dei templi, nelle stoffe. Tonalità da pantheon indiano, e da eroi delle saghe bollywoodiane, appropriate anche per queste eroine della vita di tutti i giorni.

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