“Se trasmetterò a qualcuno la curiosità di andare a vedere l’Albania e a conoscere la gente, vorrà dire che il mio film avrà avuto uno scopo”, dice Carmine Fornari a proposito di Hotel Dajti nelle sale da venerdì 12.
Messo da parte il suo occhio documentaristico (è stato videoartista e autore di documentari dagli anni ’70, nel lungometraggio ha esordito con L’amico arabo) compie almeno tre operazioni di evocazione: gli anni ’30, la chiusura blindata di un regime comunista senza alleati, la possibile storia d’amore che lega qualcuno di qua e di là dal mare. Ovvero: il periodo in cui l’Italia aveva il protettorato dell’Albania e dove soprattutto dalle coste del Salento si andava e veniva da Durazzo o Tirana in gita nei fine settimana, il successivo regime di Henver Hoxha che fece raggiungere (tra l’altro) l’elettrificazione completa del paese, il rapporto oggi piuttosto conflittuale tra due popoli distanti solo pochi chilometri.
Da questa solida base si svolge un racconto piuttosto anomalo nel panorama italiano interpretato da tipologie diverse di attori: due mostri sacri del teatro come Flavio Bucci e Piera Degli Esposti, il giovanissimo Francesco Giuffrida e la coppia di illusionisti Michele Venitucci-Sarah Baumann.
Il protagonista è Andrea D’Aquino ingaggiato dall’Hotel Dajti come mago, lei la giovane maga conosciuta sul posto: insieme compongono un’alchimia amorosa e anche un duo che lascia il pubblico estasiato, poi il successo porta la polizia sulle tracce del giovane e durante la fuga la moglie cade in mare e affoga, o almeno così crede lui e dopo la guerra ogni contatto con l’Albania è impossibile, finché per un caso fortuito, un giovane scafista porta la notizia a un Andrea invecchiato che dall’altra parte del mare l’amatissima compagna è in fin di vita.
Girato tra Bari, Molfetta e per lo più all’interno dell’autentico Hotel Dajti voluto da Mussolini e costruito da Piacentini come alloggio degli italiani, il film evoca i tanti scafi che solcano il mare verso l’Italia, a trovare qualche germe di fratellanza e di curiosità, come dice il regista.
Qual è l’immagine dell’Albania che hai voluto dare?
Il Mediterraneo è fatto di tanti rapporti da una costa all’altra. Io non voglio dare un giudizio politico sull’Albania, che ha avuto 400 anni di dominazione turca e poi è stata variamente contesa da tutti. Non ho voluto fare una ricostruzione storica, ma ho dato alcune indicazioni che ci possano fare vedere il volto dell’Albania sotto la dominazione italiana. Il mio è stato un lavoro della memoria, così come mi è stato raccontato, per questo il film ha piuttosto una chiave intimista. L’Albania era una sorta di muro di Berlino ideale, qualche rara volta arrivava qualcuno da lì ed era come avere un contatto con l’Oriente, con i Balcani. Stando in Puglia, io che sono barese, mi sono sentito come in una zona di frontiera. Poteva essere una possibilità di cambiamento, ma gli italiani che andavano anche prima della guerra avevano una certa violenza e rabbia. La giovane protagonista dimostra con quel suo fascino una certa possibilità di cambiamento, di ponte emozionale tra universi sconosciuti.
Da chi ti è stata raccontata questa storia?
Mio padre era medico dell’ospedale di Tirana e mi ha raccontato questo incontro con Andrea D’Aquino e quella sua moglie che volava a mezz’aria, minuta e leggerissima, diceva che avevano uno strepitoso successo. In Italia era ricercato: non si sapeva bene cosa avesse fatto, forse era nella Resistenza, non si sa. Si diceva che la moglie fosse caduta in acqua e che lui si fosse ritirato in un paesino della Puglia. Io ho traformato questo racconto in una favola, con quella ragazza che svolazza a mezz’aria. Per i pescatori, immaginare la sponda opposta è allargare le loro possibilità, sognare e di sperare.
Come è stato accolto il film a Tirana?
Quando abbiamo fatto l’anteprima in Albania il ministro della cultura ha detto che l’arte unisce non i popoli, ma le persone. Mi piacerebbe che dopo il film qualcuno andasse a conoscere quelle persone.
Sei stato in Albania come documentarista? Hai girato materiali sugli sbarchi?
Non ho mai girato sugli scafisti perché mi sarei sentito un estraneo e non potrei mai fare questo lavoro senza una full immersion. Quando ho girato il documentario sul rock dei paesi dell’Est riuscivo sempre ad andare oltre, nelle zone proibite, nelle cantine. Faccio film solo se ne sento la necessità, certe volte le storie che mi sfiorano sono più belle delle storie raccontate nei documentari. Il documentario lo faccio sulla linea del cinema della realtà e l’elaborazione avviene in un secondo tempo, in fase di montaggio. Nel film di fiction, invece, ho cercato di portare gli attori, caricandoli fino a un certo punto in cui potevano poi utilizzare le energie messe in gioco.
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