VENEZIA – Carlo Mazzacurati è ormai di casa a Venezia. Già vincitore di un Leone d’argento nel 1994 con Il toro, è stato in concorso altre due volte con La lingua del santo e Vesna va veloce. E sempre al Lido esordì con Notte italiana alla Settimana della critica che festeggia quest’anno il venticinquennale proprio con una versione restaurata di quella sua opera prima. Il regista padovano è di nuovo in competizione con la Passione, film tragicomico, dove la risata è al servizio di una riflessione ironica ma profonda sull’avere o recuperare quella passione del creare, andata persa per motivi privati e pubblici.
Silvio Orlando è Gianni Dubois, regista 50enne in crisi creativa, pressato al cellulare dal produttore che aspetta da lui una sceneggiatura vincente per la giovane stella (Cristiana Capotondi) della fiction tv che punta a conquistare il podio cinematografico. La situazione per Dubois si complica quando una perdita nel suo appartamento di un paesino della Maremma toscana rovina un affresco della chiesetta confinante. Per evitare la denuncia della sindachessa (Stefania Sandrelli) accetta di curare la regia della “Passione di Cristo”, con l’aiuto di un ex carcerato (Giuseppe Battiston). Ma la sacra rappresentazione si rivela un’impresa più complicata del previsto: interpreti dilettanti, il Cristo impersonato da un vanitoso attore locale, popolare in zona per le sue declamate previsioni meteorologiche, peraltro inesatte, con in scena un divertentissimo Corrado Guzzanti. Ci si mette anche un forte temporale mentre il venerdì santo si svolge la Via Crucis… la Passione prodotto da Fandango in collaborazione con Rai Cinema, esce con 01 in 300 copie il 24 settembre.
Quanto c’è di autobiografico nel suo film?
Non bisognerebbe svelare quello che si fa in cucina quando si prepara un piatto. E’ vero, sono stato coinvolto mio malgrado in un fatto analogo e da quella vicenda tragicomica è nato un raccontino orale di una sventura, senza mai pensare che un giorno l’avrei trasformato in un film. Fino a quando, dopo aver aggiunto alcune balle per rendere la storia un poco più accattivante, un amico mi ha detto che forse poteva funzionare al cinema. Così ho cominciato a lavorare con gli sceneggiatori Leondeff, Contarello e Pettenello e andando avanti ci siamo accorti che il soggetto era una spugna che assorbiva del materiale interessante.
E’ un film che riflette sul mestiere di regista?
Parla semmai della paura, del panico, dell’attimo di vuoto quando si perde l’ispirazione o semplicemente una mattina davanti alla troupe non si sa che cosa fare. E’ la storia di un blocco e di uno sblocco.
In fondo il suo regista, per paradosso, vive anche lui una sorta di resurrezione.
In senso laico la Sacra rappresentazione racconta la caduta e la resurrezione che è qualcosa cui siamo sottoposti nell’arco della nostra vita tutte le volte che perdiamo il lavoro oppure quando una persona muore o ci lascia. Qui è la storia di un uomo che perde l’ispirazione e attraverso questa catarsi la ritrova.
Perché ha scelto di inserire la messa in scena della Passione di Cristo?
In un’epoca di perdita profonda della memoria, come se non sapessimo da dove veniamo come popolo, questa rappresentazione è forse il momento più alto della espressione iconografica italiana cioè della pittura del ‘400 e ‘500. Ho fatto precipitare queste persone disperate e nevrotiche dentro una tessitura e una materia che è il momento più significativo della nostra espressione creativa, anche della bellezza che questo Paese è riuscito a esprimere. Ed è venuto allora spontaneo scegliere come paesaggio la Toscana
Sacro e profano sembrano mescolarsi.
Questo film è fatto in maniera molto laica. C’è una sovrapposizione dei destini di un povero Cristo e del Cristo della rappresentazione, quello delle processioni di paese che avvengono in ogni parte d’Italia il Venerdì santo. Mi pare importante questa coincidenza tra il destino del regista e quello di questa sorta di armata Brancaleone di disperati.
E’ così difficile la vita degli artisti oggi come racconta il film?
Penso a chi è giovane e comincia fare questo mestiere, perché adesso è molto difficile capire che cosa il produttore o il pubblico vogliono. C’è un’eccessiva attenzione a calcolare il risultato e gli obiettivi. La forza del cinema, soprattutto quando si è giovani, è invece il rischio e l’esperimento.
Il film sembra anche suggerire la difficoltà di vivere e di far ridere nell’Italia di oggi.
Non dirò nulla di nuovo, ma siamo arrivati a un punto per cui gli eventi e la parodia di questi eventi si sono così mischiati che è molto difficile produrre un pensiero con effetti comici. Ridi per non piangere e a volte piangi. Comunque abbiamo cercato di costruire un racconto con onesta e linearità. Ma non ci siamo posti la domanda ‘Come si fa a far ridere oggi nella situazione che vive il Paese?’.
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