“Cerco delle storie che mi aiutino a raccontare l’oggi. Pure con qualche piccolo effetto speciale, roba da poco, quello che ci possiamo permettere”. Sembra scherzare, Carlo Mazzacurati, gli si stampa un sorriso fugace sul volto, che tradisce una simpatia che lui si sforza di celare. E poi, uno che crede nell’amore per un’unica persona (non solo ne La lingua del Santo, ma anche nella vita), non si trova facilmente.
Ma poi perde la voglia di raccontare. Quello che ha da dire lo dice con i film. Ricorda un po’ lo straordinario cameo di Paolini, che appare in un incubo del ladro Albanese nei panni di Sant’Antonio cui è stata rubata la lingua. Non parla volentieri, non prende posizione, nega qualsiasi analisi che dia profondità al film. Peccato.
Mazzacurati, i suoi film sono sempre narrazioni di storie. Ha mai pensato di fare lo scrittore?
In effetti sono uno scrittore mancato. Nel senso che non so scrivere. Alle elementari ho avuto una maestra suora che non sapeva parlare e così mi mancano le basi dell’italiano. Però amo molto la letteratura. In compenso, non sono interessato all’analisi sociologica della realtà.
Due ladri che rubano per sbaglio la reliquia di Sant’Antonio. Uno spunto da qualche fatto di cronaca?
Qualche anno fa fu rubato il mento del santo. Ma non ci siamo ispirati a questo. L’idea è nata da un insieme di cose. Cercavamo di raccontare una storia di questo tipo.
Ossia?
Ossia, la vicenda di un uomo che cade in un esaurimento nervoso e nel corso della storia ritrova forza e sicurezza in se stesso.
Lei sembra avere un forte legame con la provincia.
Amo molto anche altri posti. Certo, la mia provincia mi viene più facile da raccontare. Apprezzo molto anche i film europei dove si riconoscono i luoghi, Glasgow o Valencia, e i loro linguaggi.
Ma è vero che a Padova si gioca molto a rugby?
C’è tutto un mondo legato al rugby. Le scene sportive sono parte delle cose che mi hanno ispirato. In Veneto si tratta di uno sport popolare, non d’élite. Si potrebbero fare molti film sull’argomento.
Le scene nella cattedrale dove sono state girate?
In 16 chiese diverse, tra cui una cappella sconsacrata. Gli esterni sono girati veramente fuori della cattedrale di Sant’Antonio, perché abbiamo trovato un ingegnere appassionato di cinema, che ci ha dato una mano.
E la voce fuori campo, così insistita?
La voce off di Willy è una condizione nuova, che entra in una specie di controtempo, è un altro stato d’animo. È la guarigione da un esaurimento nervoso. Questa è la storia di una persona che precipita, perde se stessa, perde la lingua. La voce off ha a che vedere con il tempo ritrovato. Ha anche una funzione affabulatoria, è il ritorno della parola, del nuovo Willy che ha recuperato fiducia in se stesso.
La protagonista del film, Patrizia, interpretata da Isabella Ferrari, rimane poco descritta, un po’ ambigua.
Volutamente. Per il personaggio femminile cercavo una figura di profonda ambiguità emotiva. Lei approda come a un’anestesia, vive una specie di sopravvivenza. Una delle cose che più mi piacciono nei film è l’atteggiamento emotivo ambiguo, che a me dica qualcosa.
Il film lascia un certo amaro in bocca, i personaggi sono tutti soli…
La solitudine è la condizione più terribile, soprattutto quando non si trova nessuno disposto a dare una mano. Io sono dalla parte degli appartati.
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