Bruno Bigoni: nel Mediterraneo di De André, tra gangster e migranti


“Dieci anni fa, nell’anno della morte di Fabrizio De André, ho girato Faber, un atto d’amore che per me era una forma di risarcimento del debito inestinguibile che ho nei confronti di quest’artista. Era un film sull’uomo, mentre con Il colore del vento ho fatto un lavoro diverso, riascoltando Creuza de Mä, pensando alle cose di cui parla e al loro significato di oggi”. Bruno Bigoni è tornato sulle tracce del disco con cui De Andrè volle “inventare un linguaggio in cui si riconoscessero e si identificassero tutte le genti del Mediterraneo”, facendone un documentario dal titolo Il colore del vento, in programma tra gli Extra del Festival di Roma.

 

Un’Odissea che, seguendo i marinai di un cargo, tocca le tappe più significative del Mare Nostrum (Barcellona, Tangeri, Bari, Libano, Lampedusa, Dubrovnik, Genova) e, quindi della nostra contemporaneità, raccontandone le guerre, le ferite, le aspirazioni e le contraddizioni, ma soprattutto gli umori di intolleranza e diffidenza che serpeggiano tra le genti. C’è il ricordo doloroso del conflitto in ex-Yugoslavia, c’è lo schiavismo tra i caruggi di Genova, ci sono le ondate di migranti sulle coste di Lampedusa e l’integrazione di una delle prime rumene approdate a Bari nei primi anni ’90. Prodotto da Minnie Ferrara e Associati in collaborazione con Lumière & Co., con il patrocinio della Fondazione Fabrizio De André e il contributo del MiBAC, Il colore del vento sarà distribuito da Teodora.

Perché questo viaggio?
Aveva molto senso per vari motivi, di cui forse il principale era verificare ciò che Fabrizio De Andrè aveva detto negli anni ’80 in rapporto alla situazione attuale del Mediterraneo.

Fino a che punto Il colore del vento resta fedele alle suggestioni di De Andrè?
Nel film ci sono gli stessi temi, gli stessi elementi della poetica di De Andrè: gli ultimi, la guerra, l’anarchia. I riferimenti legati al disco sono molti, la prostituzione a Genova, l’anarchia, che è una forma di utopia e la guerra, sotto forma di un padre che piange il figlio morto. Ho voluto mantenere alcuni elementi della sua poetica per raccontare delle storie che hanno a che fare con la realtà. Tutto è visto attraverso gli occhi di un marinaio imbarcato su un cargo, che compie un viaggio attraverso questi paesi.

Che paesaggio ha trovato? Che sorprese ha avuto?
Ciò che ho visto in questo viaggio non è diverso da ciò che mi aspettavo, cioé che il mar Mediterraneo è un mare che separa, uno sbarramento tra Nord e Sud, dove il Sud vuole raggiungere un Nord proibito, che lo rifiuta. E questo mare è anche un cimitero: a Lampedusa per un immigrato che arriva a terra ce n’è uno che muore in mare. Lo sguardo con cui sono partito non era particolarmente ottimista e ciò che ho visto non si è allontanato dalle mie aspettative, anche se una storia positiva c’è: quella di Violeta. E’ una storia di integrazione che mostra un mondo diverso, senza paura e sospetto nei confronti dell’altro.

La tappa di Lampedusa offre uno sguardo inedito sulla complicata situazione dell’isola.
Sono stato a Lampedusa nel 2009, nel momento più terribile, e ho scattato una foto della situazione: una forte contraddizione negli approcci degli isolani. Tra questi alcuni hanno un atteggiamento di accoglienza, altri di rifiuto e insofferenza. Ma era un popolo abbandonato a se stesso, dove è capitato che si concentrassero 30mila immigrati in un anno, laddove la popolazione è composta da 5.000 residenti.

Quanto tempo è stato necessario per realizzare il documentario? Quali sono state le difficoltà?
L’ho scritto e pensato nel 2008, poi l’ho girato nel corso del 2009, anche se non continuativamente. L’ho concluso a maggio del 2010 con le riprese di Genova, in cui abbiamo documentato la presenza delle prostitute nigeriane sottoposte a una vera tratta: vengono portate lì da uno “sponsor” che anticipa i costi del viaggio e poi affidate a una “maman”, che toglie loro i documenti e gli effetti personali fino all’estinzione del debito.

E’ stato pericoloso girare in quel contesto?
Ho rischiato la vita. Ci siamo trovati in una situazione esplosiva, con una strada controllata dalla camorra, un’altra dalla ‘ndrangheta, un’altra ancora dagli africani. Portare una telecamera in quei luoghi equivaleva a portare una pistola, e spesso durante le riprese ho rischiato di essere malmenato, ma sono stato aiutato dai trans, che controllano il quartiere e che hanno fatto opera di mediazione per aiutarci. Lì, d’altronde, c’è una situazione di schiavitù.

autore
29 Ottobre 2010

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