Un uomo senza nome si siede su una panchina e scopre che sua moglie se ne è andata per non tornare più. Malata terminale, lo ha lasciato per andare a morire nel luogo e nel modo che preferisce. È solo l’ennesimo evento traumatico della vita del protagonista di Cinque stanze, il film scritto e diretto da Bruno Bigoni, presentato Fuori concorso nella sezione “Fedeli alla linea” del 40mo Torino Film Festival.
Il dramma, fotografato in un elegante bianco e nero, racconta la storia di quest’uomo, interpretato da Riccardo Magherini, tre mesi prima e tre mesi dopo la morte della moglie, andando liberamente avanti e indietro nel tempo. Caratteristica fondamentale di Cinque stanze, come si può intuire dal titolo, è la divisione in cinque capitoli rigorosi, uno per ogni “stanza” in cui si svolge la vicenda. Pian piano i pezzi si compongono, facendo emergere le fragilità e i limiti di un uomo perennemente fuori posto, incapace di tenersi le uniche cose che lo renderebbero felice.
Bruno Bigoni, da dove viene l’idea di questa struttura, che impone dei limiti fisici e temporali molto stimolanti?
Le cinque stanze mi servivano per definire un luogo e quello che accade in quel luogo. Ma anche perché in qualche modo, simbolicamente raccontavano una specie di condizione dello spirito. Inizialmente io avevo dato un titolo a ogni stanza: l’incapacità, l’abbandono, la solitudine, l’amore e il corpo. Serviva a me per costruire i concetti che sono stati sviluppati, legando a come il personaggio vive quella stanza. L’unico dubbio che avevo era sul fuori, perché non è propriamente una stanza, ma lo diventa perché raccoglie tutto ciò che non è accaduto dentro. La cesura della morte della moglie è quella che determina tutto lo svolgimento: da una parte l’incapacità sua di vivere una vita di coppia, tanto da non rendersi conto della malattia della moglie, dall’altra la presa di coscienza della sua inutilità come uomo. Questo non è un film sul dolore, è un film sulla caduta e sull’incapacità di mettersi in piedi.
Perché parla del personaggio come un uomo inutile?
Il film racconta un uomo senza qualità e il tema fondamentale è la violenza sulla donna, non quella fisica, ma una molto più sottile e crudele, perché quotidiana: l’indifferenza. Un tipo di violenza che avviene in ogni ceto sociale. Un uomo che non si pone questo problema, tanto da non accorgersi della malattia della moglie, non può che essere senza qualità. Non c’è più neanche quel minimo di intelligenza affettiva. Non perché è cattivo, ma proprio perché non ce la fa.
Ci sono tre personaggi femminili molto importanti: la moglie, l’amante, la prostituta. Come rispondono alle esigenze e alla crescita del protagonista?
La presenza della donna è molto importante per il protagonista. Lui ha una moglie che pensa di non amare più, da cui si è allontanato nel momento in cui il massimo dolore avrebbe dovuto avvicinare. Ha un amante che non lo ama. E poi c’è una prostituta che frequenta solo per avere una compagnia. E poi c’è la moglie giovane, un fantasma che compare, che sono gli unici momenti in cui lui torna ad avere un sorriso.
Proprio questi sono gli unici momenti in cui si abbandona, seppure per poco, il bianco e nero.
Il mondo che vedo intorno ha me è in bianco e nero, un mondo opaco, pieno di ombre. Mi sembrava che una storia come questa fosse importante raccontarla in bianco e nero. Quando compare, il colore è destrutturato, c’è un 10% di quello che dovrebbe essere. Ed è solo in momenti in cui lui riesce a recuperare un’umanità, un sentimento, di ricordare che cosa era l’amore e quanta importanza avesse per lui.
È molto interessante il tipo di casting che ha svolto. Attori molto bravi, ma lontani dalle estetiche irreali degli attori più blasonati. Persone normali, come noi.
Sono andato a cercare attori che venissero dal teatro, che però mi permettesse di lavorare di più sulla qualità e sulla capacità dell’attore di mettersi in gioco. Non dico mai cosa devono fare, creo solo le condizioni per permettere loro di esprimersi al meglio. Non mi interessa che sia bello, brutto, ma che sia vero.
Esatto, non si percepisce il filtro cinematografico.
Se prendevo Margherita Buy e Gassmann non mi tornava più quella roba lì, diventava un’altra cosa.
Anche sulla location, fondamentale per ovvi motivi, ha lavorato in tal senso. Spesso le case dei film sono perfette, rappresentano vite idealizzate. Questa è una casa come tante altre.
La casa è una casa vera, vissuta. Il problema è stato trovarla al prezzo giusto in una città costosa come Milano, per un film indipendente come questo. Era anche importante che fosse ambientato lì, Milano mi sembra una città molto più francese, non c’è la parlata romana.
Molto curato il lavoro musicale, come ci lavorato?
Ho lavorato con il musicista Fabio Gianni, gli ho spiegato la struttura del film e lui ha visto le cinque stanze e mi ha costruito cinque segmenti musicali che avessero lo spirito delle scene che si vedevano al loro interno. Hanno un’unità musicale, sono suonate solo con il pianoforte, lo strumento più completo che c’è, ma nello stesso momento sono differenti l’una dall’altra.
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