CANNES. Completato solo 10 giorni fa è arrivato per le due proiezioni al Marché du film il drammatico Talking to the Trees, pellicola sulla piaga della prostituzione minorile in Cambogia. Una storia di coraggio, speranza e redenzione firmata da Ilaria Borrelli – al suo terzo film dopo Mariti in affitto (2003) e Come le formiche (2007) – in cerca di un distributore internazionale e italiano sia per il theatrical che per il video on demand. Si tratta di una produzione indipendente e familiare: Ilaria Borrelli, oltre che protagonista, ha sceneggiato la storia insieme al marito Guido Freddi che si è occupato della musica e della fase produttiva con la Capetoste Pictures. Un film low budget in lingua inglese, costato circa 110/120mila € e finanziato da privati del Belgio e della Francia, girato in Cambogia in 7 settimane nel febbraio e marzo dell’anno scorso e con post produzione tra Parigi e Roma. Ilaria e Guido, insieme da oltre 22 anni, hanno portato con loro in Cambogia i loro due figli che all’epoca avevano 3 e 5 anni e durante le riprese hanno frequentato le scuole del Paese.
Al centro della vicenda di Talking to the Trees Mia, una fotografa di successo che da Parigi vola in Cambogia per fare una sorpresa al marito Xavier (Philippe Caroit) e cercare di avere con lui il bambino che desidera. Ma una terribile scoperta l’attende quando s’imbatte nel marito cliente di un bordello dove ha rapporti sessuali con una bambina di undici anni, Srey. Mia abbandona il marito e decide di salvare Srey e riportarla dalla famiglia, da cui era stata rapita. Non basteranno i soldi offerti al proprietario del bordello, Mia deve sacrificare anche il proprio corpo al “Generale”, il più potente cliente del bordello, e poi darsi alla fuga con la bambina. Ma la polizia locale, su richiesta del marito, la sta cercando. E’ solo l’inizio di un lungo viaggio verso la casa di Srey…
Come nasce il film?
Ilaria Borrelli. Dal rifiuto, ancora più forte da quando sono diventata madre, della violenza contro i bambini, che vengono usati come soldati nelle guerre o prostituiti. Si calcola che ci siano nel mondo 40 milioni di bambini schiavi della prostituzione. Mi avevano poi colpito le immagini di un’inchiesta svolta proprio in Cambogia da un giornalista americano del ‘New York Times’, Nicholas D. Kristof, che si era finto cliente di un bordello. I bambini vengono rapiti o venduti ai tenutari per 150 dollari dalle famiglie.
Una condizione terribile per l’infanzia in Cambogia?
Guido Freddi. Nel Paese c’è un alto tasso di alcolismo e di droghe chimiche, in molte famiglie sono assenti i padri. Si tratta di una generazione che ha sofferto la perdita dei genitori uccisi dai khmer rossi, una strage alla fine degli anni ’70 di quasi tre milioni di persone. Ora nei migliori casi le madri senza marito e con più figli sono costrette a scegliere quale figlio salvare. In Cambogia c’è poi corruzione a tutti i livelli tant’è che la proprietà di questi bordelli coinvolge le gerarchie militari.
Come vi siete preparati per il film?
Ilaria Borrelli. C’è stato nel 2010 un primo viaggio di ricerca in Cambogia durante il quale avevamo raccolto una serie di interviste a bambine prostitute ed ex, ma poi abbiamo deciso di non utilizzare né questo materiale né loro come interpreti, non volevamo sfruttare il vero dolore. Abbiamo invece cercato, con un casting di 80 provini, bambine scolarizzate, capaci di parlare inglese, e le cui famiglie sono state informate del tema del film.
Quale è stato il punto di partenza?
Guido Freddi. La capitale Phnom Penh, in particolare la Cambodia Film Commission che è di fatto un’emanazione del CNC francese, cioè ha finanziamenti dalla Francia. E poi fondamentale è stato l’aiuto del regista Rithy Pahn. Loro ci hanno aiutato nel contattare i giovani da formare sul set e nel prestarci materiale tecnico. Di nostro c’erano solo la camera e i microfoni.
Ma il cast tecnico era formato anche da occidentali?
Guido Freddi. Sì, l’assistente alla regia, il direttore della fotografia, il fonico e lo scenografo in precedenza avevano lavorato con noi. L’accordo con loro è stato di profit sharing, cioè una volta chiuso in pareggio il film si dividono i profitti, in quanto ognuno è proprietario di una quota di 10 mila euro. Con la condizione che loro dovevano formare nel villaggio cambogiano i loro assistenti e gli attrezzisti, cioè una troupe locale dai 15 ai 20 membri, secondo i giorni. Ora questi ragazzi, scelti dopo un casting, lavorano nella tv locale.
Come avete potuto lavorare in un Paese così difficile?
Guido Freddi. Per evitare ostacoli di qualsiasi tipo abbiamo girato in location difficilmente controllabili dalle autorità, ottenendo permessi senza entrare nei dettagli del film. Comunque ci sono state autorità amiche e vicine al nostro progetto.
“Talking to the Trees” è parte di una trilogia dedicata ai bambini?
Ilaria Borrelli. Sì il prossimo lavoro, che ha già una distribuzione francese, riguarderà la storia vera di un piccolo tibetano scampato alla violenza dei cinesi mentre attraversa la frontiera tra Tibet e India. Il massacro dei tibetani è un altro tema che ci sta molto a cuore. E il terzo ‘episodio’ ambientato in Etiopia tratterà una tragedia umanitaria rimossa, quella del ‘marriage by abduction’, cioè la violenza di gruppo che viene fatta a una bambina che viene così costretta a sposarsi subito in quanto ormai ‘sporca’.
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