Bjorn Andrésen: “La bellezza è una condanna”

Il peso di essere considerato "il ragazzo più bello del mondo" è inscritto nella parabola umana di Bjorn Andrésen, attore adolescente nel ruolo di Tadzio in Morte a Venezia


PESARO – Il peso di essere considerato “il ragazzo più bello del mondo”, il peso del cinema si potrebbe dire, è inscritto nella parabola umana di Bjorn Andrésen, attore adolescente nel ruolo di Tadzio in Morte a Venezia di Luchino Visconti (1971). Film per molti versi mitico – il regista aveva accarezzato per anni il progetto di un adattamento del celebre racconto di Thomas Mann – che all’allora 15enne svedese, orfano di madre, con un padre mai conosciuto, una sorella con cui cresceva quasi in simbiosi, provocò un terremoto emotivo inarrestabile. Non tanto per la realizzazione del film, accanto alla “dolcissima” Silvana Mangano e in un clima protetto, benché con gli occhi di parte della troupe addosso per la sua bellezza efebica e perfetta, algida e conturbante. Quanto piuttosto per tutto quello che accadrà dopo, a partire dal debutto a Cannes, con la giostra mediatica, le attenzioni gay, il successo planetario e la lunga tournée in Giappone dove Bjorn ispirerà i manga e persino il personaggio di Lady Oscar.

Tutto questo è raccontato nel documentario The Most Beautiful Boy in the World di Kristina Lindstrom e Kristian Petri, proposto a Pesaro in Piazza del Popolo, in sala con Wanted Cinema. Un pezzo di storia del cinema ma soprattutto una vicenda umana, quella dell’abuso psicologico su un giovane già segnato da un destino complesso. Una vicenda che porta alla mente altri “furti d’anima” del grande cinema. Visconti, rifiutando il suggerimento dei produttori di scegliere una ragazza per il ruolo di Tadzio, cominciò a girare l’Europa alla ricerca del suo personaggio, il giovinetto polacco che affascina il compositore Gustav von Aschenbach durante il suo soggiorno definitivo al Lido di Venezia, in una città lagunare minacciata dalla peste. Un angelo della morte che il regista trovò nello studente di musica di Stoccolma.

Il documentario è molto duro con Visconti, come del resto lo è lo stesso Andrésen nelle sue parole. Tanto da ricordare come le uniche quattro indicazioni che il regista gli rivolgeva fossero: muoviti, fermati, voltati, sorridi. Ma è dalla fine del set che inizia il peggio: Andrésen rievoca una serata in un night club dopo la prima a Cannes, circondato da attenzioni maschili non richieste e sgradite. Ma anche il provino, con la richiesta di denudarsi fino alla cintola appare come particolarmente antipatico. Come pure il periodo della grande popolarità, tra Tokyo e Londra, sempre all’insegna dell’uso e abuso della sua immagine fisica, qualcosa che più spesso accade alle giovani donne “oggetto”. “In sostanza è un film sulla reificazione e i suoi effetti sulla persona”, sintetizza la produttrice Stina Gardell. Il film, tuttavia, non parla solo del caso Morte a Venezia e si pone come una vera e propria biografia di Andrésen.

Il ragazzo bellissimo che, secondo lo storico del cinema Lawrence J. Quirk, poteva essere un fotogramma da appendere al Louvre o ai Musei Vaticani, l’uomo che accusò la femminista Germaine Greer di aver usato una sua foto come copertina per il libro The Beautiful Boy (2003) senza chiederne il permesso, è oggi un musicista dall’aspetto hippy – lunghi capelli bianchi e barba da profeta – che cerca di allontanare da sé il più possibile lo spettro di Tadzio e di una bellezza come condanna.

Come mai ha accettato di rievocare la vicenda per lei dolorosa di Morte a Venezia e di mettersi a nudo in un documentario?

In breve per amicizia verso Kristian Petri che conosco dagli anni ’80 avendo lavorato con lui, anche nei pub e nei locali. Quando mi ha detto che gli sarebbe piaciuto fare un mio ritratto, ho immaginato un cortometraggio di 10 minuti, invece il film è andato oltre le mie aspettative. Ma non ha faticato a convincermi perché mi fido di lui.

In cosa ha trovato soddisfazione nella sua vita?

No di certo nell’essere un’icona. Sei felice quando realizzi qualcosa di tuo, non quando appartieni a qualcun altro. Mi sento un musicista e non mi sono mai considerato un attore. Non che non mi piaccia recitare, è divertente, ma la musica è la mia espressione, anche se non suono in una band perché molti musicisti mi considerano un attore. Sa cosa direi ai giovani che ambiscono a diventare famosi? Lascia perdere, a meno che non ti serva a sviluppare qualche tuo talento.

Pensa che questo documentario rappresenti la chiusura del cerchio rispetto a Morte a Venezia?

Spero di sì. I miei problemi non nascono dal ruolo, ma dalle conseguenze nella società. Morte a Venezia mi ha ossessionato e ha condizionato la mia vita che è tutta associata a quel film, anche per questo sono qui con voi. Non sarà mai possibile farsi una ragione di quella vicenda. Il Festival di Cannes è stato un incubo. Mentre l’esperienza sul set è stata normale, il circo mediatico mi è divenuto subito insopportabile. Non mi aspettavo la regina d’Inghilterra alla premiere di Londra.

Cosa l’ha portata al cinema?

Vuole dire chi: mia nonna. Sono cresciuto con lei e per qualche motivo che ignoro rispondeva a tutte le inserzioni. A 7 anni ho suonato il pianoforte in televisione, quindi ha cominciato a mandarmi a tutti i provini e io ubbidivo da bravo ragazzo. Ho girato un film svedese nel 1970 e la mia scheda è rimasta negli archivi della società di produzione, così Visconti ha visto una mia foto e tutto è cominciato. 

Nel 2019 è tornato al cinema per girare Midsommar di Ari Aster. Cosa l’ha spinta a fare un horror?

A 15 anni, quando mi chiedevano che film volessi fare, rispondevo sempre un horror. E così ho tenuto fede a me stesso.

Ha qualche ricordo positivo di Morte a Venezia?

I miei ricordi sono prevalentemente tristi, eccetto il set, che è stato divertente. Avevo un sacco di amici della mia età, andavamo nei locali e bevevamo. Varie volte avevo una sbronza sul set e si vede.

Visconti le ha mai parlato del personaggio, le ha dato qualche indicazione?

Avevo 15 anni, ero uno stupido ragazzino e quindi no, non mi ha invitato a scavare nel personaggio. Non mi ha detto nulla se non muoviti, fermati, girati e sorridi. 

Come riassumerebbe Luchino Visconti in tre aggettivi?

Riverito, duro, feroce. Ricordo che una volta un tecnico entrò per sbaglio nell’inquadratura, lui urlò così forte che all’Hotel des Bains si fece il silenzio assoluto, non si sentiva volare una mosca.

E che ricordo ha di Silvana Mangano?

Era una donna dolce. Molto nervosa alla prima del film a Londra. Ricordo che la trascinai lungo le scale. Era bianca come un cencio.

 

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