CANNES – 12 anni, la periferia, la malinconia, la rabbia, e la voglia di “spiccare il volo”.
Bailey (Nykiya Adams) – col fratello Hunter – vive in uno squat del Kent settentrionale: Bug (Barry Keoghan, già Premio BAFTA – Miglior Attore Non Protagonista per The Banshees of Inisherin), un padre fanciullo, non ha la giusta concentrazione per cogliere il tempo della pubertà di una bambina sicuramente più adulta della sua età, ma pur sempre una creatura in divenire. “Svegliati bellezza, c’è speranza”, c’è scritto sui muri di quelle abitazioni popolari.
Le sequenze della quotidianità periferica di Bailey sono riempite da immagini ricorrenti di elementi della Natura che rimandano al volo, alle ali, che sono libertà, ma anche abbraccio piumato. Bailey tiene spesso in mano un cellulare, con cui riprende molti istanti della sua vita, in cui la bellezza sono i voli dei gabbiani, i dettagli di piume che arredano la cameretta, sulle cui pareti appare, però, anche un cuore cancellato con una croce.
Bird – film di Andrea Arnold, in Concorso (e a Cannes già tre volte Premio della Giuria) – è un volo sopra le brutture dell’esistenza, che affidando le ali ai più giovani solca uno spiraglio di speranza.
Nel suo errare quotidiano, Bailey, che ha in sé la poesia, ma altrettanto la fatica di essere una creatura lasciata a se stessa, incontra Bird – di nome e di fatto: è Franz Rogowski questa sorta Puck shakespeariano contemporaneo, ma per cui il tormento intimo dell’identità è questione complessa. Un cartoncino, un indirizzo scritto a mano, il disegno a penna di un uccello, e nient’altro…: chi è questo Bird in gonnella? Da dove viene? Dove è capace di volare? Per Arnold – che a Cannes 2024 ha ricevuto anche la Carrosse d’or per “qualità innovative, coraggio e indipendenza” – cresciuta con una mamma single, con una “infanzia molto selvaggia”, Bird “è stato un viaggio doloroso”, che l’ha riportata lì dov’è diventata grande: “il fatto che io sia qui adesso è una sorta di miracolo” e l’idea del film “arriva da lontano, dall’immagine di un uomo di grandi dimensioni, nella foschia. Volevo capire cosa volesse dire: era un buon uomo? Era mascolino? Non lo so. Il pubblico deve interpretare, è lì il piacere”.
Per la scelta di Rogowski “non abbiamo riflettuto su una nazionalità possibile, ma più pensato che lui per quell’uomo fosse credibile, l’ho adorato. Ho stabilito una relazione di riflessione intellettuale, la base della relazione con un attore, per portare la persona al personaggio. È stato come quando cerchi tra tante conchiglie e poi trovi qualcosa di magnifico” (infatti, il personaggio e l’interpretazione potrebbero non lasciare indifferenti la Giuria?).
L’attore tedesco del suo Bird ha amato “il realismo e la fantasia, anche nella visione. Ho condiviso con Andrea i valori, così ho amato personaggio e stile. Ho amato il mélange del film. Ho galleggiato nella Natura, è stato un concetto interessante. Mi sono imbarcato in una sorta di avventura e l’idea era creare qualcosa che non potrebbe esistere, ma… non tutto può essere controllato. È difficile trovare ruoli interessanti scritti in maniera interessante, spesso si fanno solo copie della realtà”.
Nella storia, Bailey, tra un risveglio mattutino in cui il sangue che la macchia tra le gambe le fa intuire di essere diventata adulta, almeno biologicamente, questione che affronta ancora una volta da sola, e quest’incontro che la rende perplessa e l’affascina al contempo, un giorno porta con sé Bird e così ci fa conoscere sua madre, le sue sorelline e il fratellino, ma scopriamo con lei che lì, in quella casa disastrata, c’è anche un uomo, un compagno tutt’altro che affettuoso: Bailey ci aveva visto giusto, la sua mamma poteva ricordare qualcosa del passato e offrire una chiave alla vita di Bird, il nome di suo padre, Fred.
Da qui, una scampagnata al mare, tra la libertà dell’acqua che purifica e avvolge, nonché il luogo prediletto dai gabbiani per il loro volo, e la conoscenza di un uomo preso alla sprovvista, anche perché certo che il proprio figlio fosse morto.
Bird e Bailey, due anime che s’incontrano nelle rispettive solitudini, con la comune ricerca del proprio io d’origine, di ritorno da questa giornata di scoperte sì, ma anche di spleen, s’imbattono nel suddetto compagno violento, ed è a questo punto che si manifesta la sua essenza di uomo-uccello: è qui, nell’ultimo quarto d’ora del film, che Arnold fa esplodere l’idea potente, il simbolo, del film, però snocciolato troppo discretamente nel pregresso del racconto, una fragilità sempre presente sì, ma tenuta quasi in secondo piano, tanto che si crea e si rarefà ciclicamente, raggiungendo questo culmine d’effetto ma a questo punto troppo circoscritto, seppur poi rimesso a promemoria – in una bella visione estetica – nella sequenza del matrimonio del padre di lei, tra braccia umane e grandi piume, mentre risuona un ritornello che, non a caso, canta: “… reality could happen”.
Il dialogo, nel film, non è mai molto e la musica tutt’altro che decorativa. Per Arnold: “il dialogo è qualcosa di naturale ma è l’immagine che racconta la storia. Ho quasi alternato una scena con dialogo e una senza, il dialogo dev’essere qualcosa di cui si ha bisogno. E la musica ha sempre avuto lo scopo di creare l’atmosfera del film, per mettere nell’immagine il mood con cui l’ho scritto”.
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