ROMA – “Ora che avete capito che sono la pop star, posso togliermi gli occhiali”. Così entra in scena Robbie Williams incontrando la stampa italiana in occasione dell’uscita del biopic che racconta l’incredibile vita del cantante idolo degli anni ’90 e 2000. Williams non perde mai l’occasione di ricordare chi è. Una star, sì, ma dal cuore più rock che pop, amante dell’eccesso, di un disturbo che, ogni volta che può, adora riversare attorno a sé. “Senza l’attenzione degli altri, io non esisto”, spiega raccontando la genesi del film. “L’ho fatto per me, per la mia carriera”. In altre parole, o meglio ancora con le sue: per continuare ad esistere. Anche di questo parla Better Man, diretto dal regista dell’acclamato musical The greatest Showman, Michael Gracey.
Il racconto della vita Williams si inserisce nel redivivo filone dei biopic dedicato alle star della musica, genere fortunatissimo ai botteghini dal fenomeno di Bohemian Rhapsody in poi. Anche qui, però, Williams ha voluto fare le cose a modo suo. “Ci sono tanti biopic in giro – spiega la star – a tal punto che ci siamo stancati di vedere tutte queste storie edulcorate, il nostro film non lo è affatto, anche in quei punti in cui magari sarebbe dovuto esserlo”. Anche da qui nasce l’idea più forte di Better Man: per tutto il film Williams è interpretato da un attore (Jonno Davies) che, grazie a un mix di CGI e Performance Capture (la tecnica di Avatar, per fare l’esempio più noto), appare in forma di scimmia. Un modo per rivelare Williams per come lui stesso si vede: “Sono un selvaggio, mi sono sempre sentito una scimmia!”. Un pizzico di marketing – “forse se non avessimo avuto questa idea il film si sarebbe notato meno!”, ammette il cantante – e un po’ di poesia, ed ecco che l’idea, ottimamente realizzata anche grazie a una fotografia che inserisce la scimmia-Williams nel contesto circostante, trasforma il film in qualcosa di più del solito ritratto patinato.
Gracey ha spiegato che il suo rapporto con Williams viene da lontano. All’epoca di The greatest showman, il cantante lo aiutò a portare a compimento il musical con protagonista Hugh Jackman. “Hugh è un grande fan di Williams e all’inizio non era convinto delle canzoni di The Greatest Showman, allora le mandai a Robbie e lui fece un video per convincerlo. Ovviamente funzionò subito”. Better Man ha rappresentato per il regista una nuova sfida. Sono tanti e complessi i numeri musicali, diretti in uno stile a tratti onirico e fuori dagli schemi del genere; più vicini alle idee visive di Rocket Man (la biografia di Elton John), e forse di Elvis, che al ben più semplice Bohemian Rhapsody. “Una delle scene più difficili ci ha richiesto settimane di preparazione, peccato poi che quando eravamo pronti a girare è morta la Regina d’Inghilterra e il lutto nazionale ci ha costretti a fermare le riprese in strada”, ha spiegato Gracey. “Davvero maleducato da parte della Regina”.
Mentre il regista parla, Williams riprende il pubblico davanti a sé: “Scusate, è per mia figlia, lei non ci crede che sono importante”. Un sorriso e scatta l’applauso. Lo stesso ghigno compiaciuto che, secondo gli eventi narrati dal film, convinse il manager Nigel Martin-Smith a scommettere sull’allora sfacciatissimo quindicenne di Stoke-on-Trent, nello Staffordshire.
Il film racconta la grande avventura verso il successo, dalla nascita della boyband Take that al passaggio alla vita da solista. Nel mezzo, gli eccessi, veri protagonisti di una vita di fama ma segnata dalle dipendenze e da un senso di inadeguatezza inspiegabile a chi, attorno a lui, gli ha sempre ricordato che “non si può non sapere chi si è quando milioni di persone urlano il tuo nome”. Centrale nel racconto il rapporto col padre, scappato di casa quando il cantante era appena un bambino, e poi riapparso solo molti anni dopo.
“Non ho fatto questo film per altruismo”, ammette Williams. “Non volevo suscitare empatia, nemmeno comprensione. Nessuno scopo umano: l’ho fatto per me, per la mia carriera. Per professione, da sempre, cerco attenzione. È il mio modo di vivere”. L’autenticità (è questa parola chiave del progetto) con cui il racconto riversa sullo schermo la vita di Williams, senza troppi filtri, è la ragione per la quale “in molti dicono di essersi identificati”. Un vero e proprio “effetto collaterale del mio narcisismo”, chiosa Williams. Nel film si parla del vero volto della fama, ma anche di forme depressive che non richiedono la pressione del successo per essere comprese. Sui titoli di coda infatti gli indirizzi web di un’associazione dedicata alle malattie mentali. “Quando Robbie diventò famoso a inizi anni ’90 – aggiunge il regista – solo chi era di successo veniva giudicato dal mondo intero. Oggi, con i social, ogni adolescente sente il giudizio di tutti. Per questo abbiamo voluto aggiungere quel messaggio finale”.
Oggi, Williams ha combattuto i propri demoni, alter ego sempre presenti nel film, a tal punto che il climax del racconto è messo in scena come una vera e propria battaglia contro i suoi demoni interiori. “Soffro di dipendenze, e oggi resta il problema del cibo. Ho smesso con le droghe. Ho smesso con l’alcool. Anche col sesso ho chiuso. Resterà sempre però un problema con il mio corpo, ed è ancora così quando mi guardo allo specchio”, ammette il cantante.
Robbie Williams si trova in Italia per presentare il film e ieri sera, giovedì 5 dicembre, ha aperto la finale di XFactor a Napoli: “Un’occasione che mi ha fatto innamorare ancora di più dell’Italia: qui c’è un caos straordinario. Dietro le quinte vedevo tutti correre da una parte all’altra urlando, molto diverso dallo stile inglese. Poi, però, guardavo lo schermo e tutto era perfetto. Il caos restava dietro. Per questo amo gli italiani”. Nel 1994, con i Take That, Williams solcò anche il palco dell’Ariston di Sanremo. Ricordi? “Ma che, ero strafatto”. Una vera “scimmia” che ora prova a essere un “better man”, un uomo migliore. E quando non funziona, eccolo là: un ultimo sorriso scoccato alla platea.
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