CANNES. Trent’anni che non realizzava un film in italiano e ben nove dall’ultimo, The Dreamers, dopo la forzata immobilità, ora diventata “la mia normalità. Seduto piuttosto che in piedi”. Bernardo Bertolucci con Io e te, presentato Fuori concorso: “Mi sarebbe piaciuto il concorso ma dopo la Palma alla carriera dell’anno scorso mi sembrava troppo”. Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti, con la scelta di raccontare i desideri, la rabbia, la fragilità e i sogni di due giovani ribelli. Lorenzo è un 14enne introverso e in conflitto con la madre. Rifiuta di stare con gli altri suoi compagni e finge di partire per la montagna per fare un piacere ai genitori preoccupati del suo isolamento volontario. Si rifugia invece in cantina in compagnia di libri horror, lattine di coca cola, scatolette e un formicaio da osservare. Una piacevole tana che viene però violata da Olivia, la sorellastra 25enne estroversa ma tossica e problematica. In questa convivenza imprevista si scontrano caratteri opposti e diverse età, ma alla fine entrambi si scoprono vicini e promettono di cercarsi di nuovo. E Lorenzo capisce, occupandosi di Olivia, che la sua solitudine tanto cercata ha origine dalla paura di provare sentimenti.
C’era il rischio, dato l’argomento, di essere melodrammatici o datati, Bertolucci evita il pericolo grazie sia a una sceneggiatura ‘calcolata’ e misurata, sia alla spontaneità e intensità dei due protagonisti, Jacopo Olmo Antinori (1997) e Tea Falco (1986), provenienti da esperienze teatrali e/o cinematografiche. Il resto lo fanno il montaggio, la raffinata fotografia e l’utilizzo mai ripetitivo della camera nonostante si tratti di un film in gran parte in unico ambiente. Io e te è una produzione Fiction e Mario Gianani per Wildside in collaborazione con Medusa Film che lo distribuirà a ottobre.
E’ contento che il film venga proiettato il pomeriggio?
Mi avevamo proposto una proiezione la sera alle 22.30 ma ho preferito questa collocazione pomeridiana perché è un film solare, non notturno, che ha un suo, forse non è la parola giusta, ottimismo. E poi è un film giovane, con protagonisti dei ragazzi.
Ammaniti è bravo a descrivere nei suoi libri i ragazzi?
Sì, molto. Penso a ‘Io non ho paura’, anche se poi li manda sottoterra o dentro le cantine. Del suo libro, che è in prima persona, subito mi è piaciuta la forza di Lorenzo. Ho raccolto la sfida di restituire la complessità del testo o di trovarne un’altra. Spesso ho realizzato film da libri, ma non sono un illustratore e anche se volessi non sarei capace. In genere sventro il testo per ricostruirlo.
Il finale del film è diverso rispetto al libro, quasi un happy end?
Happy end? Non so, di sicuro rispetto alla morte. Una volta letto il libro dissi a Niccolò che ne avrei tratto volentieri un film, ma non mi piaceva la conclusione. Spesso i tossici vengono fatti morire per moralismo o per convenzione. Ho tagliato in fase di sceneggiatura tutta la parte con il padre e poi su suggerimento di Niccolò ho cambiato il finale in montaggio alternato che avevo previsto: Lorenzo che torna a casa e dice la verità; Olivia che entra in un bar e mentre aspetta il suo amico si chiude in bagno. Ho scelto un finale aperto, che lo spettatore può immaginare. Sono poi contento dell’ultima parte perché si vede nascere tra loro un amore vero, che tra fratelli è fatto di tutto anche di erotismo, di sangue.
Ritornano spesso gli adolescenti nella sua cinematografia.
Mi piacciono. Ne ho parlato in Novecento, L’ultimo imperatore, in Dreamers erano tardo adolescenti. Credo che i vecchi e i ragazzi hanno la libertà di trovare sentimenti molto trasgressivi, fuori dal conformismo. Fanno parte della vita degli adolescenti le scene isteriche, il chiudersi a chiave in stanza, l’aggressività espressa contro i genitori. Lorenzo si isola ascoltando la musica con gli auricolari, non gli importa nulla dei compagni di scuola. E’ una scelta meditata di solitudine, ha preparato tutto, ma non è preso da uno ‘Sturm und Drang’. E’ annoiato dei genitori anche se vuole bene loro, vuole stare in questo suo antro da lui creato, ma arriva Olivia con tutta la sua furia.
Come ha scelto i protagonisti?
Quello di Lorenzo era un viso che non riuscivo a immaginare. Quando ho visto gli enormi occhi di Jacopo, quei capelli alla Robert Smith dei Cure, quel faccino che fa pensare a Malcolm McDowell da giovane… ma anche misteriosamente a Pasolini, non ho avuto dubbi.
E Tea Falco?
Lei ha dato molto al personaggio. Mi è piaciuta da subito, appena fatto il provino. Soprattutto il suo accento catanese che gli stranieri non coglieranno. E’ importante questo elemento perché torno a fare un film in Italia e non c’è solo la metropoli, Roma.
Per il ballo di Lorenzo e Olivia ha scelto un vecchio motivo fine anni ’60.
Ho sentito il brano musicale ‘Ragazzo solo, ragazza sola’ mentre vagavo in macchina per le strade di Los Angeles senza meta, aspettando di fare un film. E’ la versione italiana, eseguita da David Bowie, della canzone di fantascienza ‘Space Oddity’ diventata da noi, grazie a Mogol, una canzone romantica. L’ho chiamato e gli ho detto: come hai fatto nel 1968 a descrivere le solitudini dei due ragazzi del mio film?
E’ stato complicato girare?
Per anni ho pensato che non avrei potuto più fare un film. Ho attraversato una grande depressione quando ho scoperto che non potevo più camminare. Per tornare su un set, ho dovuto elaborare questo evento come accadde con un lutto. Durante le riprese mi sono mosso bene con questa sedia a rotelle. Mi dicevo che era un miracolo, ma in fondo facevo quello che ho sempre fatto. Nel film non c’è una sintassi diversa da quella degli altri miei film, è forse più essenziale. Il set era a un minuto esatto da casa mia a Trastevere, scendevo con questa meravigliosa sedia a rotelle che vedete e attraverso il garage arrivavo al set, la cantina, cioè lo studio che mi ha prestato l’artista Sergio Chia. E appena possibile tornerò di nuovo alla regia.
Che ne pensa della sua città, Parma, che ha premiato i grillini?
E’ la prima volta che i parmigiani mi sorprendono, sono sempre così moderati. Questi sentimenti forti sono di casa qualche chilometro più in là, a Piacenza, Reggio Emilia. Parma ha sempre evitato l’aggressività, ma il sindaco cacciato li ha esasperati.
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