C’era una volta in Sardegna, e non solo, i campi di grano scossi dal “bentu”. Ai tempi, infatti, il vento era un elemento fondamentale della mietitura, perché sollevandosi permetteva ai contadini di separare i chicchi dalla paglia. Un lungo periodo privo di vento di fatto comprometteva l’esito del raccolto. Da questa premessa parte il film di Salvatore Mereu intitolato proprio Bentu, presentato nelle Giornate degli Autori nell’ambito della 79ma Mostra del Cinema di Venezia.
Protagonista del film è un anziano contadino che attende l’arrivo del vento, in un periodo che vede l’arrivo delle nuove tecnologie che in pochi anni spazzeranno via il suo stile di vita: le mietitrebbie. Insieme a lui c’è solo un ragazzino, unico tramite con il resto del villaggio. “Il vento non fa da contorno, è un elemento narrativo, il cuore del racconto stesso. – spiega Mereu – E sta a simboleggiare la natura, il suo mistero e il suo carico di imprevedibilità e quindi e anche giusto che ci sia questa componente di inquietudine. Col tempo abbiamo alterato il nostro rapporto con la natura, abbiamo pensato di governarla, di dominarla, di farne l’uso che ritenevamo a noi più congeniale. In realtà nelle civiltà contadine c’era un rispetto sacro per le leggi della natura che è andato perduto. Questo fa sì che oggi noi la viviamo in un mondo che non è più corretto. Bentu ci deve servire un po’ da monito”.
Il film entra nella placida vita quotidiana del protagonista, nella sua attesa fatta di pochissimi appuntamenti giornalieri, compresi i pasti, che Mereu ritrae con l’indugio tipico del documentarista. Il ritmo pacato e avvolgente risulta profondamente immersivo per lo spettatore che entra a conoscenza di questa routine rurale. “Io da sempre, pur praticando la fiction, lavoro al confine con il documentario, nel senso che spesso uso interpreti che non sono attori di professione, scelgo i luoghi non per una convenienza produttiva, ma perché ritengo che abbiano dentro la storia che voglio raccontare. E tutto questo dà l’impressione allo spettatore che quello che accade sia vero. Quando questo succede sento di aver vinto la mia piccola partita. Per farlo spesso cerco di girare con una troupe piccola, in modo tale che la macchina del cinema non pesi sull’evento che si vuole evocare e rappresentare e non lo condizioni. Da questo punto di vista la mia esperienza è più simile a quella del documentario”.
Nel gioco di mimesi fornito da Mereu, hanno un ruolo cruciale i due protagonisti (Peppeddu Cuccu e Giovanni Porcu) perfettamente a loro agio nel portare avanti la seppur flebile narrazione attraverso i vivaci scambi nel loro incomprensibile e colorito dialetto. “Da anni lavoro con non-attori, pagando un prezzo molto alto perché vuol dire alienarsi una parte di pubblico molto grande che ancora oggi va al cinema per vedere gli attori che conosce. È una scelta di campo che riguarda anche la lingua. In termini di ritorno economico non paga, però poi ho scoperto che poi i film fortunatamente arrivano a tutti. Si tratta di farli scoprire e i festival fondamentalmente servono a questo. Danno la possibilità alla gente, che normalmente vede solo quello che gli viene proposto, di scoprire anche degli oggetti diversi da quelli che offrono oggi magari le piattaforme, che seguono una logica da algoritmo. Quando questo accade e uno spettatore ha la sensazione di avere scoperto qualcosa che gli appartiene, è un buon segno per me che faccio questo lavoro”.
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