CANNES – Chi ha battezzato Edgardo Mortara?
È questa La domanda capitale che scorre sottopelle per l’intero Rapito di Marco Bellocchio, 83 anni e “in uno stato di straordinaria vitalità artistica” secondo il delegato generale di Cannes, Frémaux. È il primo dei tre film italiani in Concorso e narra il caso reale di metà ‘800, avvenuto sotto lo Stato Pontificio di Pio IX (Paolo Pierobon), che il 23 giugno 1858 ha prelevato a forza il fanciullo dalla sua famiglia (Barbara Ronchi la mamma Marianna, Fausto Russo Alesi il papà Momolo), con la motivazione che – nonostante l’appartenenza religiosa d’origine ebraica – lui avesse ricevuto il battesimo. “Ho l’ordine di prenderlo” secondo indicazioni superiori del Santo Uffizio, così il maresciallo Lucidi irrompe nella casa dei bolognesi Mortara per strappare il bambino, 6 anni, dal nido famigliare. (leggi l’articolo sull’incontro con il regista e il cast).
Un thriller per alcuni versi, un discorso sul potere e l’esercizio dello stesso, sulla religione come superba e ricattatoria, una riflessione sull’infanzia quale tempo della vita in cui viene impressa un’impronta indelebile per il futuro dell’individuo.
Una luce spesso caravaggesca dipinge la visione, in cui fulgore e buio camminano per mano, tra speranza e mistero, o inquietudine, conferendo al film un tratto estetico che è anche simbolico.
Un giorno, un solo giorno, viene concesso ai Mortara prima che il piccolo Edgardo (Enea Sala; poi adulto Leonardo Maltese) sia portato via, ore febbrili in cui il papà disperato e incredulo ma volitivo – come in tutto il film – cerca un dialogo con monsignor Feletti (Fabrizio Gifuni), padre inquisitore domenicano, che – ieratico – non concede spiragli, e nemmeno troppe parole, se non un assoluto: “vostro figlio è cristiano in eterno”. Il bambino è stato battezzato, dunque deve essere educato alla Fede cattolica, nella Roma pontificia: “tanto potrete vederlo tutte le volte che volete”, concede a chiosa. L’atto sarebbe stato praticato applicando il 60mo canone sancito nel Concilio di Toledo del 633, secondo cui gli ebrei battezzati diventano di fatto cattolici e devono essere educati secondo i precetti della Chiesa romana.
È drammatica, dilaniante, la sequenza in cui Edgardo viene prelevato da casa, con risolutezza, conteso tra le braccia famigliari e quelli militari, col bambino che grida disperato una preghiera terrena: “papà non mi abbandonare!”.
Edgardo viene strappato dalla sua Bologna e nella notte approda via acqua sulle sponde del Tevere, in prospettiva dominate della cupola di San Pietro, una visione che risuona come un angosciante imperativo, a monito di chi sia il detentore del potere. “Il Papa ti aspetta, il re dei Cristiani, il tuo re”, con queste parole disturbanti, arcaiche, quanto inquietanti, il bambino viene accolto nella Capitale e da qui – e per tutto il film – ricorre spesso, simbolico, potente, l’incontro oculare tra lo sguardo di Edgardo e il crocifisso, il Cristo in croce, come se lui fosse affascinato da quell’icona drammatica e per cui le due donne che si prendono cura del piccolo Mortara non mancano di aggiungere affanno affermando: “l’hanno ucciso gli ebrei”, parole dette a lui, bambino ebreo, come a istillare in una creatura innocente quel tipico senso di colpa proprio del cattolicesimo.
Il caso Mortara – per Rapito liberamente tratto dal libro di Daniele Scalise, Il caso Mortara. La vera storia del bambino ebreo rapito dal papa (1996), e sceneggiato da Marco Bellocchio, Susanna Nicchiarelli, Edoardo Albinati, Daniela Ceselli – suscita un’eco che sconfina oltre il Paese: la famiglia non smette di lottare, supportata da un’opinione pubblica sempre più insofferente verso il potere temporale. Sabatino (Paolo Calabresi), portavoce della comunità ebraica romana, a colloquio con Momolo, fa notare come “avete fatto troppa confusione”, fino in America, ma altrettanto suggerisce che “il bambino si deve ribellare, oppure non lo vedrete più!”. E, non da meno, sul fronte vaticano, sono le parole del Cardinal Antonelli (Filippo Timi), per cui “il caso Mortara ci sta mettendo in cattiva luce anche con i cattolici”, suggerisce al Pontefice, ma “non posso rinunciare al bambino per coerenza ai principi della nostra Fede: io sono il Papa, solo a Dio devo rispondere”, ribatte lapidario l’uomo in ermellino e cremisi.
Non smette di aleggiare la questione iniziale – “Chi ha battezzato Edgardo Mortara?” – per l’intero racconto filmico: sarebbe stato proprio il suddetto Feletti a raccogliere la confessione di una balia cristiana, che nei primi mesi di vita del neonato si prendeva cura di lui, e in una circostanza di malattia che avrebbe potuto portare ad un epilogo di morte era stata mossa dall’idea di battezzarlo lei stessa, temendo che perendo da ebreo sarebbe rimasto nel limbo. Oppure Edgardo Mortara non era mai stato battezzato, e quel “dobbiamo battezzarlo subito”, affermato da Pio IX in una sequenza tra incubo e realtà, lascia intendere che sia stato un caso imbastito a uso e consumo della Chiesa?
È intensa e simbolica la maternità di Marianna, in particolare nella sequenza in cui va a trovare il suo bambino al Collegio dei Catecumeni e si sente dire dal rettore che: “Edgardo tornerà a casa quando vi sarete decisi a farvi cristiani”, come se solo l’adesione a quella Fede fosse sinonimo di altezza degli spiriti. Un affronto, prima umano che religioso, che la mamma contrasta come solo una fiera sa fare per difendere la propria creatura: strappa infatti dal collo del bambino il crocifisso e sprezzante lo getta a terra, promettendo a suo figlio che lo riporterà a casa: “fidati di tua madre!”. Lui urla, piange, grida “voglio tornare dai miei fratelli”, ma i rappresentati di Dio in terra glielo strappano un’altra volta dalle braccia.
Rapito è una vicenda famigliare, una questione aperta sul potere e sul valore della religione, ma è anche un film storico, in cui – per esempio, ma non solo – assistiamo alla Bologna del 1859 che insorge contro lo Stato Pontificio, tumulto a cui in parallelo viene mostrato Pio XI che, metafora senza equivoci, collassa sulle scale.
E se “la religione è l’oppio dei popoli” secondo Marx, questa vicenda – sul fronte personale di Edgardo – non si distacca dal concetto della Fede quale possibile droga dell’anima, perché – nonostante lo strappo subìto dal bambino, un vero e proprio rapimento come suggerisce il titolo del film, e l’imposizione della privazione dell’amore famigliare – Edgardo, con il trascorrere del tempo, crescendo, assume su di sé un un’adesione assoluta a quella religione che nel nome di se stessa – o forse più degli uomini poco divini e molto terreni – lo porta a sentirsi dalla parte giusta del mondo e guardare chi non è cattolico, in primis la propria famiglia, come un soggetto meno degno. C’è certamente un contrasto interiore nell’Edgardo adolescente: simbolica la scena di confine in cui durante una cerimonia ecclesiastica lo stesso aggredisce fisicamente quel Papa che con lui spesso s’è posto in maniera paterna, non senza far correre nelle viscere dello spettatore una certa inquietudine; così come – e qui torna la Storia – Bellocchio mostra anche la Breccia di Porta Pia, dopo l’avanzare verso Roma dell’esercito avanguardista, 1870: una sequenza che, dalla Scala Santa, che il Pontefice percorre in preghiera, porta al Ponte Sant’Angelo, in cui Edgardo – tra incubo e auspicio – come posseduto grida: “buttiamolo nel Tevere ‘sto porco d’un Papa!”.
Nonostante tutto, però, Edgardo, in un epilogo di intimità assoluta e altrettanta potenza, sull’ultimo letto terreno in cui giace l’anziana mamma nei suoi estremi istanti di vita, lui le sussurra, come fosse un dono: “mamma tu mi hai dato la vita e io con il battesimo te la restituisco”, tentando in extremis la conversione della donna, ma l’amore materno non basta a togliere la dignità.
Non narrato nel film di Bellocchio, ma dato storico: nel 2004, lo scrittore Vittorio Messori, lavorando negli archivi dei Chierici Regolari Lateranensi, scoprì l’autobiografia inedita dello stesso Mortara, poi religioso e missionario, scritta nel 1888, a 37 anni: padre Mortara spiegò la vicenda, facendo un’apologia della Chiesa Cattolica e di Pio IX, Papa diffamato dalla pubblicistica laica ma beatificato poi da Giovanni Paolo II e che, nella percezione del piccolo Edgardo, era stato come un padre.
L’anteprima mondiale del film, nella serata del 23 maggio, al termine della proiezione ufficiale nel Grand théâtre Lumière di Cannes, ha raccolto un consenso tale da riservare 13 minuti di applausi a scena aperta.
Sulla vicenda Mortara anche Steven Spielberg aveva pensato di girare un film.
Il Festival di Cannes ospita il debutto assoluto di Rapito, poi distribuito nelle sale italiane da 01 Distribution a partire dal 25 maggio, e in quelle francesi dall’8 novembre.
Ecco i voti assegnati da alcuni critici italiani e internazionali ai film in concorso a Cannes 2023. Un articolo in aggiornamento per seguire da vicino la kermesse e conoscere in anteprima le opinioni sui titoli più attesi
La parola alla Palma d’oro Justine Triet, a Tran Anh Hùng Miglior Regista, al giapponese Kōji Yakusho, Miglior Interpretazione Maschile per Perfect Days di Wim Wenders
Il regista Ruben Östlund ha parlato in occasione della conferenza di chiusura del 76mo Festival di Cannes in cui la Giuria da lui presieduta ha assegnato la Palma d'Oro ad Anatomy of a Fall di Justine Triet
La giuria presieduta da Ruben Östlund ha assegnato la Palma d’Oro al francese Anatomy of a Fall di Justine Triet, la terza regista donna a riuscirci nella storia della competizione dopo Jane Campion e Julia Ducournau