Béla Tarr l’ha ribadito anche nella notte degli Orsi: smetterà di fare il regista. Ma non smetterà di fare cinema. Nel suo futuro, nonostante la drammatica situazione dell’arte nel suo paese, c’è la produzione di cinema indipendente e innovativo e il supporto ai giovani talenti. Per il maestro ungherese, 55 anni, autore di capolavori unici nella storia del cinema, è una questione morale, oltre che estetica: tutto il suo cinema, del resto, mette in discussione alle radici la condizione umana.
Qualcuno pensava che meritasse l’Orso d’oro, che non va in Ungheria dal 1975 (anno in cui vinse Adozione di Martha Meszaros). Ma poco importa. Restano comunque impresse nella retina le potenti immagini di The Turin Horse, a partire dal piano sequenza di sei minuti che apre questo film: in bianco e nero con la musica martellante di Mihaly Vig – lo stesso tema utilizzato lungo tutti i 146 minuti – il vento che schiaffeggia il cavallo, che arranca su una salita. “Una scena in realtà facile da girare, con una steadycam montata su un furgone che camminava in parallelo al calesse e che potevamo manovrare con una specie di joystick”, spiega il cineasta.
E’ stato acquistato da un distributore anche in Italia (Movies Inspired), proprio grazie al Gran Premio della Giuria e al Premio Fipresci, suggello del gradimento della critica internazionale. E parte proprio da un episodio accaduto in Italia, a Torino, all’esplodere della malattia mentale di Friedrich Nietzsche per raccontare, nei sei giorni successivi, cosa accade al cavallo che il filosofo tedesco abbracciò a Piazza Carlo Alberto, al suo vetturino e alla figlia (Janos Derzsi e Erika Bok) attraverso la ripetizione di gesti sempre uguali e quotidiani (mangiare patate, bere acquavite, spogliarsi e vestirsi), ma in un clima di tregenda, fino allo spegnersi di una luce che sembra rappresentare l’ultima speranza di un’umanità in totale decadenza.
Perché la scelta di smettere con la regia in un momento creativo per lei così ricco?
Smettere di fare film è una questione molto personale e chi mi conosce sa quali ne sono le ragioni. Con questo film, The Turin Horse, sono alla fine del cerchio, dopo potrei fare solo delle ripetizioni, magari delle buone ripetizioni, ma non mi sentirei più sfidato né mentalmente né spiritualmente. Non è necessario fare film se non hai più niente di nuovo da raccontare. E poi io sono un uomo libero in un paese che non è più tale e dove il cinema non viene più sostenuto dal governo conservatore. Un governo che odia gli intellettuali e ha iniziato un Kulturkampf contro di loro. Molti produttori falliscono, le sale chiudono, finanziamenti già approvati sono diventati carta straccia. E pensare che avevamo uno dei sistemi più avanzati in Europa. Abbiamo firmato una dichiarazione di protesta insieme ad altri colleghi come Miklos Jancso e abbiamo avuto il sostegno di 40 cineasti stranieri tra cui Wajda, Anghelopoulos, Kaurismaki, Jim Jarmusch e Gus Van Sant.
Cosa pensa dell’Orso d’argento vinto dal suo film? Si aspettava qualcosa di più?
Penso che le opere d’arte non possono mai veramente essere in competizione tra loro. Mi sapete dire se sia migliore Dostoevskij o Proust? Vedete bene l’assurdità di questa domanda… Quello che importa è che il film sia autentico. Tanto tra due settimane tutti avranno dimenticato chi ha vinto e cosa ha vinto. Non ne vale la pena.
Possiamo dire che il suo sia un film sulla fine del mondo?
Con lo sceneggiatore Laszlo Krasznahorkai, non abbiamo mai parlato di questioni ideologiche o di arte, ma della vita concreta. È così che è nata questa storia. Dite che è senza speranza ed è vero, non si comunica la speranza, come non si comunica la salvezza, non c’è lieta novella. Il mio non è un pessimismo programmatico, ma ognuno può raccontare le cose soltanto come le vede e le vive. La fine della vita è qualcosa che, prima o poi, ciascuno di noi dovrà affrontare. Viviamo in un mondo finito, siamo sulla terra e un bel giorno dovremo sparire. Invece che a me dovreste domandare al creatore perché il mondo è fatto così.
È una visione che a qualcuno risulta troppo dura da sopportare. Così come il film richiede allo spettatore un impegno non indifferente.
Bisogna guardarsi allo specchio. Qualcuno non ha lo specchio, certi non hanno neppure la casa. Ma tutti ricominciano la giornata, si alzano in piedi e si rimettono a fare le stesse cose. Ogni santo giorno. Eppure qualche volta nell’uomo, o nella donna, scoppia la rivolta. Allora valeva la pena di vivere.
A interrompere l’inevitabile e monotona discesa agli inferi sono due soli episodi: l’arrivo di un vicino di casa consapevole della tragedia che incombe, ma che non viene creduto, e il passaggio di un gruppo di zingari che attingono acqua dal pozzo e lasciano in dono un libro di preghiere.
Il monologo del vicino di casa l’aveva scritto lo sceneggiatore all’inizio degli anni ’90 ed è ancora perfettamente valido l’allarme che lancia. Anche sulla storia di Nietzsche che abbraccia il cavallo sfinito Laszlo mi aveva già fatto riflettere molto tempo fa, negli anni ’80. Poi ne abbiamo riparlato durante la lavorazione di The Man from London, quando abbiamo dovuto interrompere le riprese per un anno intero, dopo la morte di Humbert Balsan. Quanto agli zingari, che arrivano al terzo giorno, sono portatori di libertà con il loro nomadismo, ma questo segnale non viene raccolto.
Erika Bok ha lavorato solo nei suoi film da “Satantango”, che girò quando aveva 11 anni e viveva in orfanotrofio, a “The Man from London” e ora “The Turin Horse”.
Erika mette la propria pelle nei miei film, per lei non è stata certo un’esperienza sublime portare il peso dei secchi pieni d’acqua dal pozzo alla casa. Ma questo dà profondità al suo lavoro.
E’ difficile trovare distribuzione per un film del genere?
Il “negozio cinema” non vuole un film di questa lunghezza e di questa categoria, ma non ci arrendiamo. Uscirà in Francia, in Germania, in Svizzera, è stato acquistato in Italia da Movies Inspired e in diversi altri territori tra cui il Giappone.
Perché l’apocalisse dura sei giorni?
Perché il settimo giorno Dio si riposò.
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