”I verdetti sono sempre contestabili, ma la giuria non è mai prevedibile”, così Alberto Barbera, direttore della Mostra di Venezia, mette le mani avanti sui nuovi giurati – presieduti quest’anno da Alfonso Cuaron – dopo che l’anno scorso fu escluso dai premi Birdman di Inarritu. Barbera, il cui mandato sta per scadere, fa sua la frase di Baratta su un possibile rinnovo: ”Gli incarichi pubblici non si richiedono e non si rifiutano”. Comunque – aggiunge all’Ansa e all’Adnkronos – non sto certo pensando al rinnovo del mio mandato. Per ora sono concentrato solo sul festival di quest’anno”.
Dei film italiani dice: ”Credo che vadano considerati non solo i quattro in concorso (Bellocchio, Guadagnino, Gaudino e Messina), ma tutti e nove i film presenti nelle varie sezioni. Vorrei che fossero visti tutti assieme come esempio di quel cinema capace di investire oltre i canoni della commedia, un cinema vitale che sopravvive nonostante tutte le difficoltà. Non ultime quelle di un quadro legislativo inadeguato e sul principio che conti più la quantità della qualità”.
Sul mancato inserimento in concorso di Non essere cattivo, film postumo di Claudio Caligari, dice solo: “Mi dispiace davvero, ma non potevo metter cinque film italiani in competizione. Sarebbe stata una provocazione”. E ancora: ”Bisogna puntare a difendere i film d’autore che fanno più fatica a sopravvivere e per i quali gli spazi di libertà si riducono sempre di più”. Ma Barbera sa che conta anche lo star system per un festival: ”Oggi non si può prescindere da queste cose. Ovvero star system, media e pubblico. Quest’anno abbiamo, ad esempio Johnny Depp, che torna a Venezia e questo è importante. Ma oggi i divi non durano in eterno, come un tempo. Quando venne Serena Gomez, sembrava che fosse arrivata Marilyn Monroe. Oggi nessuno ne parla più”. La cosa più difficile per un direttore di festival? ”Il fatto che tutto si costruisce in otto settimane. Devi vedere qualcosa come 1.800 film e decidere chi scegliere. E capire infine se il film è disponibile. Tutte cose che si fanno senza rete”. I festival stanno comunque cambiando: “Prima erano più vetrine al servizio del mercato. Oggi questa cosa è venuta meno e molti film bypassano i festival e così il festival è tornato al suo ruolo originale. Mettere in mostra le tendenze di domani. Una vetrina per critici, produttori e pubblico”. Infine la concorrenza con il Festival di Toronto si è come placata: ”Il peggio è stato due anni fa quando Toronto ha avuto una politica aggressiva, poi si sono resi conto che era controproducente e quest’anno non c’è stato alcun problema di conflittualità”. Un solo rimpianto per il cartellone 2015: “Avrei voluto The Walk di Robert Zemeckis. L’ho visto prestissimo. Ho fatto una lunghissima trattativa ma alla fine hanno preferito fare la premiere a New York”. Il film d’altronde, con protagonista Joseph Gordon-Levitt nei panni di Philippe Petit, racconta la traversata delle Torri Gemelle del World Trade Center su un cavo d’acciaio senza alcuna protezione realizzata dal noto funambolo francese il 7 agosto 1974.
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Il delegato generale della Settimana della Critica, a fine mandato, analizza lo stato di salute del nostro cinema in un'intervista al sito Quinlan. "Il cinema italiano è malato, malato di qualcosa che non lascia sviluppare quei talenti – che a questo punto non so nemmeno più se ci siano – che vogliono rischiare con dei film più coraggiosi. Penso che chi ha le idee si diriga verso altre forme, verso le web series ad esempio, e il cinema d’autore soffra un po’ dei soliti dilemmi". A breve il Sindacato nazionale critici cinematografici indicherà il nuovo delegato generale