Ha esordito come regista lo scorso anno proprio a Venezia con un documentario, Madri, che mesi dopo ha ottenuto il David di Donatello. Ora Barbara Cupisti torna al Lido in veste di giurata della sezione Orizzonti, la stessa che l’ha aiutata a mettersi in luce. Di ritorno dagli Usa dove stava effettuando dei sopralluoghi per il suo prossimo progetto, l’artista italiana ha raccontato a CinecittàNews timori e speranze per la Mostra un attimo prima di salire sull’aereo per Venezia.
Nel 2008 era tra i giudicati, ora si trova tra i giurati. Che effetto fa stare dall’altra parte?
Mi sento di troppo. Sono già fortunata a poter fare la regista in un paese artisticamente non facile come l’Italia, in più adesso ho avuto questa straordinaria opportunità di essere a Venezia tra quelli che decidono. Io non sono brava a prendere decisioni che non riguardino strettamente il mio lavoro quindi vedo la mia posizione al Lido quest’anno particolarmente delicata. Per me dovremmo premiare tutti quelli che riescono a fare film oggi. Sono un po’ degli eroi.
Cosa si aspetta da quest’avventura veneziana?
Spero e credo che sarà un’esperienza formativa, che mi darà la possibilità di imparare qualcosa. Se penso poi che lavorerò con una grande artista come Chantal Akerman (cineasta belga presidente della giuria di Orizzonti, ndr.) e che al mio secondo anno come regista sono già a Venezia in veste di giurata non posso che sentire una grande emozione e una spinta incredibile a fare sempre meglio.
Come spiegherebbe la sezione Orizzonti e qual è l’idea di cinema che incarna?
Orizzonti per me rappresenta il futuro del cinema. Solo una sezione che si focalizza sul racconto della realtà può fungere da ponte tra la televisione e il cinema. La tv non va demonizzata ma non va neanche sposato il suo linguaggio che è sempre più povero e banale. Se invece si spinge il piccolo schermo a fare meglio e a proporre più arte e cultura, forse tra qualche anno saremo anche in grado di mostrare al pubblico prodotti migliori e potremmo riportare il documentario in sala.
Dopo Madri che racconta l’atrocità e l’inutilità del conflitto israelo-palestinese attraverso le testimonianze di 15 donne che in questa guerra hanno perso i propri figli, lei ha girato il documentario Forbidden Childhood Forbidden Dreams. Di che cosa parla e quando lo vedremo?
E’ un progetto che ha ottenuto il patrocinio dell’Unicef e idealmente è il seguito di Madri perché vede due ragazzi, due ipotetici figli sopravvissuti di quelle donne che si erano raccontate nell’altro documentario, svelare come e quanto le loro vite siano cambiate a causa del conflitto: un israeliano e un palestinese, entrambi ex combattenti, che hanno deciso di dare una svolta alla propria esistenza abbandonando le armi e mettendosi al servizio della non violenza. Hanno costituito due associazioni no profit che aiutano i bambini dei territori occupati e dimostrano ogni giorno che un altro modo di vivere è possibile anche in Medio Oriente. E’ un lavoro a cui sono molto legata e che al momento ha difficoltà ad essere distribuito. Problemi che voglio risolvere al più presto.
E per il futuro ha già in mente un nuovo documentario?
Torno proprio oggi da New York dove ho fatto qualche ricerca e sopralluogo per il mio nuovo lavoro. Sarà un racconto sulla povertà in occidente coprodotto dagli americani e Rai Cinema. Al momento sto ancora lavorando al soggetto ed è difficile stabilire quanto tempo ci metterò a finirlo. Io non sono una giornalista ma un’attrice. Per raccontare le cose non mi limito a vederle o a studiarle, ma ho bisogno di sentire le emozioni. Di certo sarà un affresco sulla quotidianità che non mostrerà niente di emblematico. Saranno le storie di una miseria che c’è ma spesso non si vede: è il caso di un’insegnante elementare costretta a fare la stripper di notte o dei figli dell’ex middle class rifiutati ed emarginati dai compagni da quando le famiglie non possono più permettersi di comprargli cellulare e jeans all’ultima moda.
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