Baltasar Kormakur: “La natura come effetto speciale”

"Volevo mostrare il potere della montagna", spiega il regista islandese. Che apre Venezia 72, fuori concorso, con il kolossal (deludente) sulla scalata alla vetta più alta del mondo


VENEZIA –  La domanda è perché? Perché decidi di tentare la scalata alla montagna più alta del mondo, di avventurarti in quella “zona morta”, sopra gli 8.000 metri, in cui il corpo umano comincia a morire. Perché spendi 65mila dollari per fare una “vacanza” che potrebbe ragionevolmente costarti la vita: l’aria è così rarefatta, povera di ossigeno, che rischi l’edema cerebrale, la temperatura sotto i 30° e oltre ti porta in breve all’ipotermia, la neve ti acceca… Quando un giornalista fa la stessa domanda al gruppo di alpinisti, alcuni piuttosto improvvisati, che sta per affrontare l’impresa, le risposte sono varie, ma girano tutte attorno al concetto di fuga. Fuga da un matrimonio che credi finito o dalla banalità del lavoro di postino, alla ricerca del tuo momento di eroismo personale.

Il film di Baltasar Kormàkur che apre Venezia 72, fuori concorso, non va troppo in profondità nel rispondere a questa domanda. Il regista islandese sembra essersi soprattutto innamorato della sfida produttiva (ci sono voluti molti anni e vari tentativi per arrivare al risultato compiuto). Quella di girare in condizioni proibitive creando emozione senza ricorrere a troppi effetti speciali e computer. “Questa è una storia vera e ho cercato di restare fedele alla realtà”, insiste. E racconta di aver attinto alla sua esperienza di bambino: “Vivevo in una fattoria isolata e per andare a scuola dovevo affrontare spesso le bufere di neve”. Ispirandosi principalmente al libro del giornalista Jon Krakauer (lo stesso di Into the Wild), Everest, che dal 24 settembre sarà in sala con la Universal, racconta con elementi di melodramma privato la tragedia alpinistica accaduta il 10 maggio del 1996, quando morirono cinque scalatori e tre soccorritori nel corso di una scalata alla cima più alta del mondo. Rob Hall (Jason Clarke), a capo della neozelandese Adventure Consultants, cerca di portare in vetta sani e salvi i suoi clienti: agisce con scrupolo affidandosi anche ai consigli di una dottoressa per verificare le condizioni psicofisiche dei membri del gruppo, tra cui anche una donna. Il suo rivale, l’americano Scott Fischer (Jake Gyllenhaal), un alpinista ubriacone e incosciente a capo della Mountain Madness (mai nome fu più azzeccato), sembra prendere più alla leggera l’impresa. Le cordate si affollano tra i vari campi base, in una versione poco romantica e molto commerciale dell’alpinismo.

Ma l’Everest non perdona. La vetta più alta del mondo è a 8.848 metri sopra il livello del mare … la quota di crociera di un aereo. Ci vuole la bombola di ossigeno per stare lassù perché anche il più banale movimento porta allo stremo delle forze. Gli sherpa nepalesi se la cavano, ma gli occidentali rischiano di sottovalutare il pericolo. E poi le condizioni climatiche possono cambiare da un momento all’altro. E infatti è proprio un’improvvisa e violentissima bufera – insieme alle decisioni sbagliate di alcuni, dettate dalla voglia di raggiungere a tutti i costi la vetta – a provocare la tragedia in cui perdono la vita sia Rob Hall che Scott Fischer, mentre un altro componente della cordata, Beck (interpretato da Josh Brolin), verrà salvato in extremis nonostante il congelamento (ma perderà il naso e le mani).

“Ho portato davvero i miei attori in Nepal, prima a Katmandu e poi al campo base – racconta ancora Kormakur – ma dopo poco hanno cominciato a stare male e abbiamo optato per le Dolomiti, siamo stati in Val Senales e poi a Cinecittà e negli studi di Pinewood. Però avevo le immagini dell’Everest girate nel 2014, anche durante una valanga”. Everest non ha la densità mistica di un altro suo film di sopravvivenza, l’intenso The Deep, in cui raccontava la storia vera di un pescatore islandese che riuscì a sopravvivere nel mare gelato per ore dialogando con un gabbiano e con Dio. “Everest è una storia epica e intima allo stesso tempo che racconta anche il potere della montagna”, sottolinea il regista che spesso usa a scopo drammaturgico il rapporto tra gli scalatori e le donne rimaste a casa ad aspettare (Keira Knightley e Robin Wright). E aggiunge: “In montagna ciò che conta è la parte più vera di noi stessi, capisci chi sei dentro la natura e nella tua relazione con la natura. Quindi possiamo dire che Everest è la metafora di qualsiasi altra situazione estrema”.

Tutti gli attori presenti, Gyllenhaal, Josh Brolin, Jason Clarke, John Hawkes ed Emily Watson, che ha il ruolo dell’assistente di Rob Hall, una sorta di angelo del campo base, parlano della grande sfida fisica comportata dalle riprese e della responsabilità di dare vita a personaggi reali, che in molti casi non ci sono più. “I figli di Scott Fischer – racconta Gyllenhaal – mi hanno contattato preoccupati del ritratto che avrei dato del padre”. E Brolin incalza: “Speriamo che quando le persone coinvolte vedranno il film possano riconoscersi. Mi sono chiesto tutto il tempo se quello che facevo fosse giusto”. Emily Watson, infine, rivela di aver parlato con la vera Helen via Skype mentre faceva il film: “Mi ha fatto sentire le registrazioni delle loro conversazioni telefoniche, è stato come toccare con mano la verità”.

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