VENEZIA – Un affabulatore al cinema. Ascanio Celestini promosso regista da Venezia con La pecora nera, echi dal suo spettacolo teatrale, poi diventato anche un libro e un dvd, una storia di matti, una storia tutta dentro la testa, le parole e gli echi delle parole, il gioco delle parti quasi pirandelliano, l’andirivieni tra passato – i “magnifici” anni ’60 in un’Italia ancora rurale e stracciona, non toccata dal boom – e il presente dei “consigli per gli acquisti”, ma soprattutto la critica all’istituzione totale, indagata in quasi cinque anni di inchiesta nei manicomi, dal 2000 al 2005. Coprotagonista, sempre accanto ad Ascanio, Giorgio Tirabassi.
Primo italiano in concorso, unica opera d’esordio della selezione di quest’anno, accolto da una platea divisa tra entusiasti e scettici, prodotto da Alessandra Acciai, Carlo Macchitella, Giorgio Magliulo, con Rai Cinema, sarà in sala il 15 ottobre con la Bim. L’attore-autore, con la sua faccia appuntita, la sua sfrontata timidezza, è protagonista qui al Lido e nel film, dov’è voce narrante e corpo in scena. Nicola, un infermiere, o forse un matto, comunque uno che vive da trent’anni in manicomio. Ci è entrato da bambino con la nonna (Barbara Valmorin) che lo portava a trovare la madre a Santa Maria della Pietà, in quella che diventerà la sua casa-prigione. Nicola ha le sue fantasie, l’amore per la coetanea Marinella, il suo dis-ordine mentale. Ma c’è la nuda realtà: i fratelli pastori che lo mettono in mezzo, così diventa il capro espiatorio della famiglia (la follia, del resto, nasce sempre nella famiglia). Poi c’è la monaca (Luisa De Santis) che lo cresce e che anche ora che è adulto si fa accompagnare tutti i giorni al supermercato: Nicola spinge il carrello e incontra Marinella, che adesso cerca di vendere il caffè agli altri clienti (è Maya Sansa).
Come è arrivato dal testo teatrale al film?
Non mi sono tanto posto la questione in questi termini. Quando scrivi e reciti un monologo, e sei in scena da solo, il film sta tutto nella tua testa e ogni sera lo tiri fuori e poi lo riavvolgi e te lo riporti a casa. È una moltiplicazione dei pani e dei pesci… Mentre nel film devi distribuire i ruoli tra i personaggi, ma io ho fatto il contrario, ho riportato tutto nella testa e non ci siamo preoccupati, con Ugo Chiti e Wilma Labate, che hanno scritto con me, di come far arrivare la storia. Però una parte del testo è stata riscritta dopo, in sovrascrittura, come quando leggi un libro e sottolinei, prendi appunti.
“Pecora nera” era il testo ideale per il cinema, più di “Scemo di guerra” o “Radio Clandestina”?
Ogni volta, con la testa, puoi immaginare di arrivare oltre e qualsiasi storia la puoi raccontare a teatro, in un libro, al cinema. Però per me è centrale l’evocazione e sicuramente Pecora nera, che non si svolge in cento anni di storia, ma molti meno, era più facile da rendere. Bisogna dire che è più difficile fare un prodotto che piace a tutti, come una merendina, piuttosto che fare un dolce che piace a me, come una crostata. Io mi fido del mio gusto, e so qual è la crostata che preferisco. Altrimenti farei la Nutella all’infinito.
E’ stato importante girare in un vero manicomio, quello di Santa Maria della Pietà a Roma?
Certo, e anche che ci fossero due persone che appartengono a quel mondo da tanti anni, un infermiere e un paziente, veramente “paziente” perché sono 42 anni che è ricoverato. Stavamo male davvero e parlavamo sottovoce. C’era su di noi la polvere del manicomio, che è il condominio dei santi.
Cos’è per lei la follia?
Più che alla follia ho pensato al disagio, uno spaesamento, una crisi di presenza che ci riguarda tutti. L’alienazione è ovunque, non solo in manicomio, ma anche in posti come la scuola, la caserma, la prigione o il supermercato. Il supermercato è un luogo totalmente alienante per l’approccio compulsivo al consumo. Quando sei dentro un supermercato ti trattano benissimo perché sei un consumatore, ma quando esci… non sei più niente. Io non cerco la critica sociale, ma penso all’etica come al luogo dove l’individuo si ritrova. E’ l’individuo che mi interessa.
Il manicomio è un luogo che, da Foucault a Basaglia, ha dato molto da riflettere al pensiero ribelle del Novecento.
Il manicomio è un luogo che toglie ogni responsabilità all’individuo e che, fino al ’78, cioè fino alla legge Basaglia, toglieva anche tutti i diritti. Ti trasforma in un neonato a cui cambiano il pannolino e che sta lì a mangiare, cacare e pisciare. Non è un’istituzione criminale perché i pazienti vengono legati e mangiano i propri escrementi, è criminale l’idea stessa che qualcuno possa decidere della libertà di qualcun altro. Però non ho voluto parlare della legge 180, e volutamente il film passa dagli anni ’60 al 2000.
Le fa effetto essere l’unico esordiente in concorso quest’anno?
Sono l’unico? Non lo sapevo… Ma io sono ansioso, prendo le gocce, le erbe, i fiori di Bach, poi magari non mi fanno niente.. E poi non capisco la differenza tra una sezione e l’altra, ecco per me siamo in un posto dove si portano i film.
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