Dopo Steven Spielberg con The Fabelmans, anche James Gray (autore che con Little Odessa si fece onore alla Mostra di Venezia nel ’94) gioca la carta dell’autobiografia con Armageddon Time Il tempo dell’apocalisse che, a dispetto del titolo, è un racconto intimista, pieno di dolcezza e di dolore: la storia di una famiglia e dell’educazione di un ragazzino ribelle. “Sono i miei ricordi – ha spiegato il regista, a Cannes, dove era in concorso – di quando avevo 12 anni. Avevo il mito di Muhammad Ali. Ronald Reagan è diventato presidente degli Stati Uniti in quel periodo e ho sentito mia madre dire: ‘ci porterà ad una guerra nucleare, a un Armageddon Time’. Se guardiamo ad oggi, non solo per la guerra, ma per l’aumento della disuguaglianza, siamo in una fase avanzata di capitalismo e a una decadenza terminale per gli Stati Uniti. Ma tutto è iniziato intorno al 1979, è stato un punto di svolta nella nostra storia”.
Siamo appunto a New York, nei Queens, nel 1980 all’inizio di questo racconto, che si svolge tutto all’interno di una famiglia di ebrei di origine ucraina di modeste condizioni: la moglie (Anne Hathaway, bravissima) è piuttosto succube del marito (Jeremy Strong), un idraulico che arriva da un contesto sociale inferiore e lo vive con sensi di inferiorità. Investe tutto sui due figli maschi per fare il “salto di classe” non esitando a usare le maniere forti specie con il piccolo, che prende parecchie cinghiate. Paul è un ribelle, dotato di talento per il disegno ma poco attento a scuola, è attratto dalle classiche “cattive compagnie”, non rispetta suo padre – da cui evidentemente non si sente compreso – ma ha invece un debole per il nonno, sopravvissuto all’Olocausto e capace di sdrammatizzare ogni situazione (Anthony Hopkins). E poi c’è il coetaneo afroamericano, un orfano che vive con la nonna malata, ed è già ripetente. Tra i due è amicizia a prima vista, con il moltiplicarsi delle occasioni per mettersi nei guai, anche quando Paul viene trasferito dal padre in una scuola privata dove tutti fanno il tifo per Reagan e i ragazzi sono già razzisti: imparerà così quanto la vita possa essere ingiusta e sperimenterà sulla pelle il significato delle classi sociali.
Gray sta ben attento a non idealizzare il passato, a dipingere i due genitori con i giusti toni, né troppo edulcorati né troppo violenti, una misura che è tra le maggiori qualità di questo film così personale. Personale, in qualche modo, anche per la 39enne Anne Hathaway che racconta: “Mia suocera ha ispirato i momenti più belli del mio personaggio. Era semplicemente la più grande madre ebrea che abbia mai visto – ha detto l’attrice, sposata con Adam Shulman – ha vissuto la vita delle famiglie a basso reddito in quell’epoca. Io ho cercato di fare una cosa: catturare la profondità di quell’amore e quella connessione e onestamente non cercherò nemmeno di esprimerlo a parole perché è oltre ed è per questo che sono così grata al cinema perché ti permette di dire cose senza parole”.
“James – aggiunge Anne Hathaway – ha osservato il passato senza giudicarlo e permettendo al dolore di un tempo di essere utile al presente. Ognuno di noi ha un’opportunità ogni giorno della sua vita, facciamo ogni giorno scelte su come comportarci, su come vogliamo vedere gli altri e su come pensiamo a noi stessi”.
Una curiosità: Robert De Niro e Oscar Isaac erano stati scelti per le parti del nonno e del padre, ma sono stati sostituiti poco prima delle riprese, mentre Cate Blanchett avrebbe dovuto interpretare la sorella del futuro presidente USA Donald Trump Maryanne, un piccolo ruolo andato poi a Jessica Chastain.
In sala dal 23 marzo con Universal.
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