ANTONIO MORABITO


Un corto che diventa lungo. Storia già sentita, da Libera al Caricatore. Ora si ripete con Cecilia, al festival di Torino fuori concorso e nelle sale dal 9 maggio distribuito da Pablo. Il cortometraggio, premiato sempre qui nel ’99, si espande. Diventa un racconto morale sulla famiglia come dittatura. Guerre condominiali, come in Strane storie di Baldoni, potere del padre e della madre… Quando Cecilia scappa di casa, si crea un iperburocratico comitato di crisi nella villetta del litorale romano. Un tentativo di passare dal caos all’ordine che sfocia nella distruzione totale. Viene da pensare alla orwelliana Fattoria degli animali, ma i riferimenti possibili sono tantissimi, da Prova d’orchestra a L’angelo sterminatore.
Però Cecilia è soprattutto un fumetto scandito dalle musiche di Vinicio Capossela e con un cast di puri non professionisti. Tranne Pamela Villoresi, la mamma vittimista che finisce per ribaltare la situazione. E che il ventinovenne Antonio Morabito ha convinto non si sa come a entrare nel progetto. Come Gianluca Arcopinto, un produttore outsider che al festival di Torino vanta una presenza addirittura schiacciante.

Antonio, raccontaci la storia di “Cecilia”.
Anni fa, con Ulna e ragno, abbiamo vinto qualche metro di pellicola a colori, ma l’abbiamo fatta scadere facendo un corto in bianco e nero. Finalmente, mettendoci un milione e mezzo a testa, io e i miei due soci nella Randalemenairs – e non mi chiedere cosa vuol dire – abbiamo fatto Cecilia, che ha girato molti festival: Clermont Ferrand, San Pietroburgo, Torino.

E Arcopinto quando è arrivato?
L’ho inseguito a lungo. A Bologna, dopo molti tentativi, sono riuscito a buttarlo in una sala dove proiettavano Cecilia: ha accettato di produrre il lungo, ma a patto che fossimo noi a fare tutto.

C’è una certa differenza stilistica tra il corto e il film vero e proprio.
Sì, sicuramente è aumentato il tono caricaturale. Il corto si concentrava sulle dinamiche interne alla famiglia, aveva anche un’aria più verosimile.

Dalla famiglia si passa allo Stato, con la sua burocrazia.
La famiglia è la cellula germinale del potere. Si passa dal microcosmo al macrocosmo ma il discorso non cambia poi molto.

Come hai fatto a coinvolgere un’attrice importante come Pamela Villoresi?
Mi incuriosiva mettere un’attrice affermata accanto a gente che non aveva nessuna idea di recitazione. Lei ha letto la sceneggiatura e le è piaciuta. Poi ha molto stimolato gli altri: in particolare Gianni Grima, che fa il marito, e che le sbraita addosso durante le liti. Nella vita Gianni è un autista, l’ho conosciuto perché giocavamo a tennis nello stesso circolo.

Fai anche una specie di satira antimaschilista.
Metto in ridicolo cose che normalmente accettiamo, come il dare l’ultima fettina di carne al figlio maschio.

Hai scelto di far scomparire l’unico personaggio che in famiglia si oppone allo status quo e sfugge al delirio collettivo.
Sì, perché il sistema sopravvive comunque all’individuo. Solo Cecilia si salva, con la fuga: ha capito che certe cose non si cambiano.

Stai scrivendo un nuovo film?
Sto lavorando a un documentario sugli stranieri nel carcere di Rebibbia. Poi scriverò un film e stavolta non grottesco.

autore
21 Novembre 2001

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