I magnifici 7 diretto da Antoine Fuqua sarà presentato in anteprima come film di chiusura della 73ma Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ed è il remake del classico western I magnifici sette del 1960 di John Sturges, rifacimento a sua volta de I sette samurai (1954) di Akira Kurosawa. Il film, scritto anche da Nic Pizzolatto, lo sceneggiatore della serie tv True Detective, è ambientato a Rose Creek, cittadina pressata dal magnate Bartholomew Bogue (Peter Sarsgaard). Per avere giustizia, e riportare la pace nella città, le leggi non bastano, così i cittadini decidono di assoldare dei fuorilegge, sette per la precisione (interpretati da Denzel Washington, Chris Pratt, Ethan Hawke, Vincent D’Onofrio, Lee Byung-hun, Manuel Garcia-Ruflo e Martin Sensmeier), un mix letale di cacciatori di teste, sicari e giocatori d’azzardo, che per una volta nella loro vita lotteranno per qualcosa che vale più dell’oro. Cosa dobbiamo aspettarci dunque da un rifacimento di due film che hanno segnato la storia del cinema internazionale? Lo abbiamo chiesto, durante un junket internazionale a Barcellona, ad Antoine Fuqua, regista del film e di Training Day, presentato fuori concorso alla 58ma edizione della Mostra d’arte cinematografica di Venezia, in cui aveva già diretto due dei “magnifici 7”, ovvero Ethan Hawke e Denzel Washington.
Che legame c’è fra “I magnifici 7” e “I sette samurai” di Akira Kurosawa?
Uno degli aspetti che mi colpì molto del film di Kurosawa, sin dalla prima visione, era il bilanciamento fra umorismo e azione. Ho cercato di mantenere questo equilibrio anche ne I magnifici 7. Ogni personaggio ha una caratteristica particolare, quello interpretato da Chris Pratt ad esempio si fa portatore dell’umorismo necessario al film, mentre Denzel Washington controbilancia con un personaggio dai tratti più oscuri e meno comici.
Il film di Kurosawa raggiunge una durata record di tre ore.
Non si può replicare una durata simile, I magnifici 7 dura complessivamente circa due ore.
Quando si parla di western non si può non citare un grande maestro come Sergio Leone. E’ stato influenzato dal suo modo di fare cinema e dai western italiani?
Assolutamente sì, non solo da lui ma anche da John Ford. Siamo tutti studenti dei grandi maestri, e anche i grandi maestri si ispirano ad altri registi, basti pensare che Sergio Leone fu accusato di plagio all’epoca di Per un pugno di dollari, dissero che aveva copiato da Akira Kurosawa, perché il film ricalcava quello realizzato tre anni prima dal regista giapponese, La sfida del samurai. Kurosawa a sua volta ha tratto ispirazione da Shakespeare. Nel cinema molto spesso si fa riferimento ad opere precedentemente realizzate, che rimangono però modelli di riferimento da cui partire per creare qualcosa di nuovo. Ogni film infatti aggiunge qualcosa di diverso a quello che è già stato raccontato in passato.
Aveva già lavorato con Denzel Washington, perché ha scelto lui come guida de “I magnifici 7”?
Denzel è un grande uomo, con un grande carisma, un vero leader naturale. Ho avuto modo di lavorare con lui in passato e questa nuova esperienza insieme mi ha confermato le sue grandi qualità sia come uomo che come attore. Per questo motivo era perfetto per guidare I magnifici 7.
“Django Unchained” di Quentin Tarantino ci ha mostrato un mondo western diverso dal classico, con protagonisti afroamericani, una linea seguita anche dal suo film. Questo cambiamento che apporto fornisce alla mitologia western?
E’ la verità, perché molti cowboy erano afroamericani. Anche alcuni film di John Wayne sono basati su storie di cowboy di colore. Il West dei tempi d’oro non è solo quello raccontato da Hollywood. C’erano persone di tutte le razze e di tutte le etnie confluite in una nazione che poteva dar loro l’opportunità di realizzare i propri sogni. Quando furono realizzati i film iconici del genere western erano molti i pregiudizi razziali, e registi e attori hanno assecondato quella mentalità. Ma c’è un’evoluzione in tutti i generi, e anche se sono film d’intrattenimento, i western riflettono il cambiamento nel mondo. Quindi non solo cowboy afroamericani, ma cowboy di tutte le razze.
E’ stato difficile per lei realizzare un western ai giorni d’oggi? Si tratta di un genere che non ha lo stesso successo che aveva in passato sul grande schermo.
Siamo riusciti a produrlo e spero che questo film dia nuovo vigore al genere. E’ una storia più ampia rispetto a quelle viste finora al cinema, questo perché non ci sono solo cowboy bianchi, ma di tutte le razze, e questo aspetto apre il campo a nuovi scenari. Uno dei motivi per cui i western al giorno d’oggi non funzionano è che coinvolgono solo cowboy bianchi, e cosa vuoi raccontare di nuovo sotto questo punto di vista se è già stato ampiamente raccontato in passato? C’è bisogno di qualcosa di nuovo. I magnifici 7 apre la strada a nuovi scenari, e se funziona, magari potremmo vedere anche protagonisti diversi da quelli visti finora, come ad esempio cowboy donne.
Recentemente gli Stati Uniti hanno affrontato diverse gravi situazioni, come quella di Orlando, che hanno messo in luce il problema della circolazione e dell’utilizzo delle armi negli USA. Crede che la sua nazione stia diventando nuovamente una sorta di Ovest selvaggio?
Io sono un regista, non un politico, realizzo film e sono un genitore. C’è da dire però che ogni nazione, dagli Stati Uniti all’Europa, ha i suoi problemi e i suoi conflitti. I film in genere possono ispirare le persone ad essere migliori, a mettere le esigenze degli altri davanti alle proprie, proprio come accade ne I magnifici 7.
Sarà Microcinema a distribuire nelle sale italiane il film Leone d'Oro 2016, The woman who left, nuovo capolavoro di Lav Diaz. La pellicola, che nonostante il massimo riconoscimento al Lido non aveva ancora distribuzione e che si temeva restasse appannaggio soltanto dei cinefili che l'hanno apprezzata alla 73esima Mostra di Venezia, sarà quindi visibile a tutti, permettendo così agli spettatori del nostro Paese di ammirare per la prima volta un'opera del maestro filippino sul grande schermo
Il film di Denis Villeneuve segnalato dalla giuria di critici e giornalisti come il migliore per l'uso degli effetti speciali. Una menzione è andata a Voyage of Time di Terrence Malick per l'uso del digitale originale e privo di referenti
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Anche se l’Italia è rimasta a bocca asciutta in termini di premi ‘grossi’, portiamo a casa con soddisfazione il premio Orizzonti a Liberami di Federica Di Giacomo, curiosa indagine antropologica sugli esorcismi nel Sud Italia. Qualcuno ha chiesto al presidente Guédiguian se per caso il fatto di non conoscere l’italiano e non aver colto tutte le sfumature grottesche del film possa aver influenzato il giudizio finale: “Ma io lo parlo l’italiano – risponde il Presidente, in italiano, e poi continua, nella sua lingua – il film è un’allegoria di quello che succede nella nostra società". Mentre su Lav Diaz dice Sam Mendes: "non abbiamo pensato alla distribuzione, solo al film. Speriamo che premiarlo contribuisca a incoraggiare il pubblico"