Anna Ferraioli Ravel: “Credo nell’essere umano come la mia Sàbbri”

Ospite al Ventotene Film Festival per presentare al pubblico dell'isola pontina 'Un altro Ferragosto' di Paolo Virzì, l'attrice salernitana ci racconta la genesi della sua Sàbbri, un personaggio che incarna la perdita della memoria storica ma che ha tanto da offrire


VENTOTENE – Ha reso il suo personaggio, quello di “Sàbbri” nella commedia corale Un altro ferragosto di Paolo Virzì, il più autentico, capace di credere ancora nel genere umano nonostante questo si dimostri così respingente. Poi, in Zamora, l’esordio alla regia di Neri Marcorè, dona alla sua Elvira la forza di vivere come donna libera nel maschiocentrico contesto degli anni ’60. In occasione della presentazione al pubblico del Ventotene Film Festival (dal 26 luglio al 1° agosto 2024) del film Un altro ferragosto, abbiamo incontrato l’attrice Anna Ferraioli Ravel, che invece alla Sàbbri di Virzì somiglia molto più di quanto non voglia far credere.

Anna, in questa mania di narcisismo collettivo dove collocherebbe Sabrina Mazzalupi?

Agli antipodi del narcisismo collettivo. Paradossalmente il suo modo di utilizzare i social è relativo a un bisogno d’amore che lei coltiva nei confronti delle persone. Lei crede sempre in una profonda e rinnovata fiducia nell’essere umano. C’è ingenuità, purezza, inconsapevolezza di Sàbbri nell’affrontare il mondo e i social network dove è arrivata casualmente, come direbbe la zia Marisa (Sabrina Ferilli) “con questo suo ritardo conoscitivo”. Lei però riesce a trasformare questa sua difficoltà dello stare al mondo in una risorsa che le permette di coltivare un sentire amplificato nei confronti dell’altro. Questa sua ingenuità la porta ad incarnare il personaggio della perdita della memoria storica quando in una scena dice “ma che è quella cosa der fascismo?”. Allo stesso tempo è però il personaggio più lucido, una specie di sibilla che profetizza un destino di infelicità collettiva a partire dal primo Ferie d’agosto dove dice “semo na famia de ‘nfelici”. A differenza degli altri personaggi che rappresentano una forma di disperazione e di narcisismo, come il personaggio di Cesare (Vinicio Marchioni) che fa tenerezza dopotutto, elemento tipico che Paolo infonde a tutti i suoi personaggi. Tutti hanno sempre un rovescio disperato e bisognoso che permette allo spettatore di identificarsi comunque con loro e di non giudicarli, perché Paolo per primo, non li giudica mai. A differenza degli altri, tutti concentrati ad apparire, lei è la più riflessiva. Alla fine dopotutto, lei è quella più avanti di tutti, disposta ad accogliere anche un altro tipo di famiglia, quella più allargata, ospitando l’ex moglie del futuro marito.

Però non diventa mai macchietta.

No, perché alla base c’è un profondo amore da parte di Paolo nei confronti di questo personaggio, proprio per la sua fragilità che le permette di non avere pelle, di sentire tutto, di lasciarsi trapassare. Con Paolo abbiamo cercato di affrontare questo personaggio a partire proprio dalla tenerezza.

Spesso considerato come un aspetto negativo.

In questa società bisogna tirare fuori una corazza, imparare a difendersi. Tutto questo è faticoso e inutile. Sarebbe molto più semplice se ci si specchiasse l’uno con l’altro. C’è un incapacità nel riconoscere che il tuo problema è anche il mio, della collettività insomma. Le più grandi rivoluzioni sono partite proprio dalla piazza perché era qualcosa che riguardava tutti.

Per quale motivo nelle interviste per la promozione di Un altro ferragosto, ha spesso dichiarato di essere diversa dal personaggio che interpreta? Eppure vedo tantissimo di lei in Sàbbri. 

Io sono partita da questo forte sentire e percepire e il personaggio mi ha permesso di liberarmi. Da un punto di vista più interiore e nascosto, mi identifico con questa sensazione di sentirmi indifesa e di volermi sentire così, di non volermi proteggere. Per me farlo rappresenta la perdita di un’occasione. Io ho sempre una grande curiosità nei confronti dell’altro perché penso che sia una ricchezza. Il mio personaggio era già esistente e interpretato nel primo film da un’altra attrice. Il mio lavoro è stato quello di entrare in altri panni e ho fatto un grande studio sul funzionamento di Instagram, per me oggetto completamente sconosciuto, non sapevo nemmeno postare una foto. Per me questo mestiere ha a che fare con l’altro, questo è il motivo per cui lo faccio, non ha a che vedere con me. Più riesco ad uscire da me stessa e a vestire i panni di qualcun altro e più mi sento di poterlo rinnovare sempre. A livello intimo io sono profondamente Sàbbri e questo mi ha permesso di liberarmi di qualcosa che ho sempre vissuto come un’ingiustizia. Io mi fido sempre del prossimo e continuerò a farlo nonostante le delusioni brucianti. Ma io lo faccio per me e non voglio cambiare questo mio lato. Col passare del tempo ho imparato a sviluppare questo sentire nei confronti del prossimo e questo mi aiuta anche un po’ a decifrare e, in caso, a proteggermi senza chiudermi perché per me sarebbe una sconfitta definitiva.

Si fida ancora dell’altro?

Prima cercavo sempre di essere performante e perfetta, invece a partire da questo personaggio, ho capito che dichiarare le proprie fragilità è anche un modo per farsi conoscere. Se per primi non ci fidiamo degli altri come possiamo pretendere che dall’altra parte sia così? Noi non abbiamo potere di cambiare le persone, quindi quello che possiamo fare è accogliere e cercare di provare una forma di tenerezza anche nei confronti dell’essere umano più abbietto. Se tu comprendi l’altro puoi riuscire a capire anche le sue di ferite e comprendere che non hanno a che fare con te.

Che tipo di umanità è quella dei personaggi di Paolo Virzì?

Si tratta di un film profondamente intriso di dolore che fotografa quella che è la situazione umana più cupa, ma non in termini politici, ma proprio nei termini di perdita dell’umanità. Abbiamo superato questa dicotomia destra e sinistra per lasciare il posto a qualcosa che ha a che vedere con la perdita dell’umanità. Prima ci si identificava in una compagine politica, invece ora c’è una lotta di tutti contro tutti. I due capifamiglia nel film precedente riunivano le famiglie con un certo entusiasmo, attorno a dei valori in cui credere: chi era a favore di una nuova Italia che stava nascendo con Berlusconi e chi invece era a favore di una rivendicazione dei valori partigiani e della Resistenza. Adesso invece c’è qualcosa di molto più inquietante che ha a che vedere con una perdita della solidarietà collettiva, del senso di comunità e di piazza.

La sua famiglia invece, a quale si avvicina di più? Ai Mazzalupi o ai Molino? 

La mia storia, la mia famiglia, il mio credo politico e formazione è completamente Molino.

Che Italia racconta il sequel di Virzì Un altro ferragosto?

In questa implosione storica se non ricominciamo a fidarci l’uno dell’altro non ne usciremo più, anche politicamente. Ora siamo in una fase ibrida in cui l’uomo è totalmente al collasso e questo si traduce poi in una crisi sociale e politica. Noi continuiamo a confrontarci con dei contenitori sociali che sono vecchi, come il concetto di famiglia tradizionale. La gente ha bisogno di rassicurazioni. Sartre diceva che l’essere umano è condannato alla libertà, lo diceva perché alludeva al fatto che la libertà non è semplicemente una cosa positiva, ma è soprattutto una responsabilità e questo crea una forte angoscia perché significa che tu sei responsabile del tuo destino e devi scegliere ogni giorno. Sartre diceva pure che l’esistenza precede l’essenza e questo è molto più rassicurante. Per questo è facile aderire a degli schemi già predisposti, e a rifugiarci in ideali e ideologie che sono di altri. Questi oltretutto ti permettono di avere un capro espiatorio rispetto a quello che non funziona e a non prenderti le tue responsabilità come cittadino. L’Italia di Virzì è un’Italia che ha superato le classificazioni e lo schema politico, ha tutto a che fare con qualcosa di più cupo e con la perdita di umanità e disperazione di qualcosa che è difficile da affrontare perché non ti puoi appoggiare all’altro. Se ci pensi è proprio il passaggio del tempo a rendere tutto ancora più melanconico, l’invecchiamento e il decadimento dei corpi. Però allo stesso tempo c’è la rinascita, affidata alle nuove generazioni. Come dice sempre Paolo “la speranza del cambiamento e della rinascita è affidata ai bambini”. Come il bambino del film, il nipote di Sandro Molino (Silvio Orlando), è lui a custodire -paradossalmente – la memoria storica, valorizzandola e facendola rivivere. Saranno proprio loro, i bambini di oggi a ricostruire questo senso di futuro condiviso. Guarda quanti ragazzi di oggi decidono di dedicare la propria vita alla causa climatica, riunendosi in assemblee. Questa cosa mi fa piangere e penso “vedi loro come si riuniscono tutti per una causa comune” nonostante la miopia delle persone. Siamo sempre portati a pensare che le cose non ci riguardino e invece non è così.

Passiamo ora a Zamora. Come è stato interpretare Elvira e come sono le donne di Neri Marcorè?

Neri ha avuto la capacità di creare un coro armonico che si muoveva come lui all’interno della sua poetica piena di grazia, gentilezza e attenzione. Questo film parte da una sceneggiatura estremamente solida e attenta, tutto volto a delineare questo universo femminile. Non si tratta di femminismo perché storicamente siamo in un momento in cui il movimento ancora era embrionale. Si tratta dunque di un femminismo non ideologico ma vissuto e rivendicato. I personaggi femminili sono una chiave di sostegno per l’uomo in crisi che si confronta con gli stereotipi del genere. Bisognerebbe chiedersi le ragioni del patriarcato, all’origine c’è sempre una profonda insicurezza. Anche l’uomo è vittima del patriarcato, a partire dalla lingua. Se pensi che a un bambino maschio viene detto “non piangere come una femminuccia”, questo ovviamente è portato fin da piccolo a reprimere le proprie emozioni e si convince che il potere si dimostri attraverso la forza fisica. Tutto questo genera insicurezza che esplode o in una manifestazione violenta o, al contrario, in una disperata repressione e chiusura come per il protagonista di Zamora che io chiamo narcisista covert: una persona che si chiude al mondo. Lui si sottrae a tutta una serie di sfide nei confronti del genere femminile e grazie al personaggio della sorella, lui effettuerà questo percorso di formazione per aprirsi alla vita.

Sogni di carriera: c’è un regista con cui le piacerebbe lavorare?

Amo il modo di Paolo Sorrentino di leggere l’umanità con ironia e onestà e ci trovo sempre una corrispondenza elettiva. A parte questo, mi piacerebbe molto lavorare con Wes Anderson, anche per una questione di colori e di guardaroba (ride, ndr).

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27 Luglio 2024

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