“Non c’è città che non imiti Mantova e il suo festival della letteratura, così come c’è una moltiplicazione di festival di cinema. Noi, insieme alla Cineteca, abbiamo voluto organizzare a Bologna un festival unico della visione e della lettura, ‘Le parole dello schermo’ animato da scrittori, registi internazionali, critici letterari e cinematografici, editori e produttori”. L’obiettivo di Angelo Guglielmi, assessore alla Cultura del Comune di Bologna, è di mettere a confronto a fine giugno cinema e letteratura per cogliere i frutti più convenienti della loro vicinanza, i reciproci apporti decisivi e anche scoprire la distanza e i sospetti che entrambi manifestano nel loro rapporto.
Guglielmi, che relazione c’è stata all’inizio tra la letteratura e il cinema?
Non si è limitato ad un prestito di trame, ma è stato un rapporto strutturale. Il romanzo entra in crisi, dopo i grandi successi nell’800, durante il furioso sviluppo nel ‘900 di quella civiltà industriale che prima aveva visto l’uomo al centro come artefice massimo e ora invece lo detronizza, mettendo al suo posto la macchina. Alla letteratura si chiede di riflettere sui nuovi tempi e la crisi che li ha investiti e nasce così un’altra narrativa che all’afflato favolistico sostituisce la riflessione, l’apologo esemplare, la confessione poetica. È allora che il cinema diventa l’erede della narrativa dell’800, e il nuovo linguaggio si presenta molto più capace ed efficace nel raccontare l’esperienza quotidiana, la realtà sociale. Il testimone passa dunque al cinema, il quale nei suoi momenti felici è un grande narratore del tempo storico. Alla narrativa resta il compito di aggirarsi tra gli incubi dell’inconscio e di indagare il mondo dell’improbabile.
E la televisione che posto ha in questa sequenza?
In passato il romanzo alto, d’arte, aveva il suo momento basso che era il romanzo d’appendice, quella paraletteratura poi sostituita dal cinema, che è diventato la forma bassa della narrazione. A sua volta il cinema, dopo aver afferrato il testimone che gli passava la grande narrativa per andare verso altri obiettivi, ha creato il suo romanzo d’appendice che è la televisione.
Oggi film e romanzo sembrano andare di pari passo?
Sono due arti che camminano insieme si scambiano trame, soggetti, pensieri. Gli sceneggiatori puramente cinematografici non esistono più, sono sempre più scrittori. L’80 per cento dei film proviene oggi da romanzi o recupera vecchi testi dimenticati. Anche perché il cinema, subito dopo la guerra, ha avuto un lungo periodo di autonomia. Trovava le sue trame, inventava i suoi soggetti, proprio perché la letteratura non era disponibile e raccontava gli aspetti nascosti della realtà, o s’avventurava per le strade dell’improbabile con Borges o Calvino.
Il nostro cinema è tornato negli ultimi anni a narrare storie, e la letteratura?
Oggi il cinema gareggia con la letteratura e forse a volte ha punte più preziose, perché c’è stata una parificazione di obiettivi. Anche la letteratura dei giovani guarda al racconto, in più si sono aperti spazi per la letteratura commerciale, che è ricca di temi e pretesti per realizzare film. E poi il grande romanzo moderno non è una romanzo d’azione. Ultimamente i giovani scrittori hanno recuperato il gusto della favola, hanno scoperto il piacere della trama. È allora che i rapporti con il grande schermo si fanno più stretti, perché il cinema sa solo favoleggiare. Il cinema che s’abbandona, quello letterario, fallisce, non è cinema per un vasto pubblico ma di nicchia.
Il film influenza sempre più il mondo letterario?
Oggi le case editrici pubblicano un romanzo sulla base di due indici: quello della qualità è al secondo posto, primo viene l’indice della possibilità di sfruttamento cinematografico. Quanto agli scrittori moderni, il cinema, il fumetto e le canzoni sono il loro nutrimento preferito. È grazie a questa produzione mediatica d’attualità che gli scrittori hanno imparato a raccontare storie senza essere banali. Valga un caso per tutti, quello di Ammaniti che concepisce all’inizio “Io non ho paura” come una sceneggiatura. Poi s’accorge che affidarla direttamente al cinema è sprecarla e la trasforma in un romanzo. In fondo c’è sempre un atteggiamento di sufficienza dello scrittore che, senza confessarlo, crede ancora di far parte di un’élite più alta.
Il romanzo che cosa deve al film?
Innanzitutto nella grande letteratura moderna, come nel cinema, è diventato essenziale il montaggio, che si presenta come assemblaggio di materiali diversi e consente all’operare della letteratura anche di ricerca di trovare un senso.
Quali consigli a un regista?
Che è più facile realizzare un buon film da un brutto romanzo; i buoni romanzi sono difficilmente trasferibili al cinema, perché si finisce per trasportare la loro letterarietà e spesso si fallisce. Inoltre il regista deve tradire il romanzo, l’originale è solo un pretesto, perciò deve fare un’altra cosa. Se la trasposizione è letterale, il fallimento è dietro l’angolo. Gli scrittori intelligenti, dopo aver venduto i diritti del loro romanzo, si tirano indietro, lasciano il regista libero.
L’intervista è tratta dal secondo numero di CinecittàNews Paper, il magazine di CinecittàNews da oggi in distribuzione nei principali festival nazionali e internazionali e on-line dal 1° luglio.
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