BERLINO – Due anni fa venne qui a Berlino con Katyn, che proprio oggi arriva nelle sale italiane, un film storico seppure ispirato a una vicenda umana molto personale, quest’anno torna al festival con Tatarak, opera intimista, che intreccia due diversi piani narrativi e che ha suscitato grande commozione. Un regista chiama una grande attrice per girare un film tratto da una novella di Jaroslaw Iwaszkiewicz, intitolata appunto “Tatarak”. Ma il progetto viene interrotto dalla malattia mortale del compagno della donna, che nella sua spoglia stanza d’albergo racconta gli ultimi mesi di vita del marito in un monologo pieno di pudore eppure spietato. Più tardi la stessa attrice entra nella finzione scenica: ora è una moglie di mezza età, sposata a un medico, affetta da un cancro, ma inconsapevole, attratta da un ragazzo con cui si dà appuntamento lungo il fiume, dove crescono le canne selvatiche (“Tatarak”, appunto), piante che emanano un inebriante profumo orientale ma anche l’odore fangoso della morte. Un intreccio di piani che dalla finzione conducono alla realtà perché la protagonista del film, la celebre attrice polacca Krystyna Janda, ha davvero vissuto la morte del marito, il direttore della fotografia Edward Klosinski, collaboratore e amico di Wajda fin dai tempi dell’ Uomo di marmo. Per il cineasta ottantenne è stata l’occasione per una riflessione sul tema del lutto, ma anche sull’attaccamento alla vita. Per l’attrice, che potrebbe candidarsi a un premio per l’interpretazione, un atto di coraggio destinato a rimanere sulla pellicola. Janda ha infatti scelto di non venire a Berlino. “Questa è una storia troppo personale e dolorosa e per lei il film resta un fatto privato”, spiega uno degli interpreti di Tatarak, Jan Englert.
Intanto Wajda annuncia già il prossimo progetto. Un film sul leader storico di Solidarnosc, Lech Walesa, che portò la Polonia alla liberazione dall’impero sovietico. Basato su una sceneggiatura di Agnieszka Holland, tratterà aspetti privati e pubblici della vita di Walesa: “Credo che la cosa più interessante sia raccontare la sua vicenda attraverso il punto di vista di sua moglie: una donna che ha avuto da lui così tanti bambini e che ha patito l’assenza del marito per tanto tempo, o perché era impegnato col movimento o perché si trovava in prigione”.
Torniamo a “Tatarak”, come è arrivato a concepire un progetto che tocca temi tanto intimi e universali in modo così diretto e persino spiazzante?
Dopo Katyn, avevo bisogno di liberarmi della tensione che quel lavoro, che affrontava la storia di mia madre e della morte di mio padre, aveva creato in me. Così ho deciso di rivolgermi a uno scrittore che avevo già incontrato tre volte in passato. Questa novella, “Tatarak”, mi aveva sempre interessato, ma la consideravo troppo breve per farne un film. Però stavolta ho deciso di provare e ho coinvolto Krystyna Janda, offrendole il ruolo di Marta.
Poi che cosa è accaduto?
Il marito di Krystyna, Edward Klosinski, si è ammalato. Sapevamo che la sua malattia era mortale e abbiamo interrotto il lavoro. Invece alla fine lei è tornata e ha deciso di continuare. Dopo poco mi ha dato qualche foglietto da leggere. Ho fatto cinquanta film e credevo di aver vissuto qualsiasi possibile situazione tra un regista e un attore, ma questo non me l’aspettavo. Aveva descritto la malattia del marito e ora era disposta a raccontarla davanti alla macchina da presa. La storia di “Tatarak” aveva fatto nascere in lei la convinzione di poter condividere quel dolore e trovare pace. Credo che abbia contato molto il fatto che ci conosciamo da 34 anni e abbiamo lavorato spesso insieme. C’è tra noi un rapporto di fiducia che ha permesso tutto questo.
Il monologo di Krystyna è girato nella camera d’albergo, con una macchina fissa, con l’intenzione dichiarata di ricreare le immagini e le suggestioni di Edward Hopper.
Hopper è un pittore che conosco bene e che ammiro molto perché sa mostrare la solitudine nella grande città e soprattutto la solitudine delle donne. Avevo in testa i suoi quadri degli anni ’30, immagini forti ed espressive. La macchina doveva essere ferma e discreta, come se fosse lì per caso. Le parole dovevano prendere il sopravvento: si vedono tanti volti in tv volti di politici, di artisti, di passanti – che non vogliono dire più nulla.
Il film, attraverso il racconto di Iwaszkiewicz, sfiora anche il tema dell’imprevedibilità della morte.
Hrabal, uno scrittore che ha molto lavorato su questo tema, raccontava che la morte avrebbe bussato alla sua porta ma, vedendolo occupato a scrivere, avrebbe deciso di ripassare più tardi. Io faccio come lui. Ecco perché giro un film dopo l’altro.
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