“Sono tanti i motivi per cui a Rosarno si è scatenata la ‘caccia la nero’. Il più importante, secondo me, è la mancanza di una forte convinzione sul fatto che l’umanità degli africani che oggi raccolgono le arance nei campi è la stessa degli italiani che lo facevano cinquant’anni fa”. Dopo Marghera canale Nord, A sud di Lampedusa e Come un uomo sulla terra, il documentarista Andrea Segre continua la sua esplorazione sensibile del fenomeno dei migranti e delle contraddizioni dei rapporti tra Sud del mondo e paesi (presunti) sviluppati con Il sangue verde, selezionato dalle Giornate degli Autori tra i “Ritratti e paesaggi italiani”.
Il regista ha raccontato a CinecittàNews la genesi del suo film, quasi un “istant movie”, e le scoperte fatte puntando la macchina da presa su Rosarno e i suoi braccianti pochi giorni dopo i fatti del gennaio scorso, quando si spegnevano le telecamere dei Tg. E dopo Venezia, Segre è già pronto per le riprese di Shun Li e il Poeta, film di finzione co-prodotto con la Francia ambientato nella laguna di Venezia e interpretato da Tao Zhao (protagonista di Still Life), Rade Serbedzija, Marco Paolini, Roberto Citran e Giuseppe Battiston. Un nuovo capitolo dell’indagine alla scoperta dell’identità dei migranti
Quando ha deciso di interrogarsi e ‘interrogare’ sulle vicende di Rosarno?
Subito dopo le manifestazioni e la caccia all’uomo del gennaio 2010, ho sentito alcuni ragazzi del luogo che avevo conosciuto tempo prima, presentando altri film. Ho chiesto loro di spiegarmi qual era la situazione e mi è venuta l’idea di andare a raccogliere le memorie a caldo dei protagonisti di quelle vicende, per sapere cosa avevano vissuto e ascoltare il loro punto di vista. Era interessante poter essere lontani dall’apice mediatico, che inevitabilmente influenza ogni riflessione, ma vicini ai fatti. Grazie all’aiuto dei ragazzi del Centro Sociale dell’ex canapificio di Caserta, dello Snia di Roma e dell’ Osservatorio sui migranti di Rosarno ho avuto la possibilità di conoscere alcuni migranti e di ascoltare le loro storie.
Con che approccio ha affrontato questa pagina della cronaca e della storia italiana?
La cosa per me più importante era togliere le persone dallo stereotipo e restituire loro la dignità di individui. Per me quelli che ho intervistato non erano immigrati, ma semplicemente persone. Con una telecamera davanti riusciva difficile anche a loro evitare di mostrarsi come stereotipi, come ‘gli immigrati che soffrono’ ma, come nei miei film precedenti, ho cercato di instaurare con loro una relazione di complicità, di ascoltare, nonostante i tempi veloci in cui il documentario è stato realizzato.
Cosa l’ha particolarmente sorpresa di ciò che ha visto o scoperto girando il film?
Non è un film di inchiesta, non voleva scoprire nulla di particolare, ma alcuni elementi sono venuti fuori spontaneamente, come il discorso dell’ex sindaco di Rosarno sui braccianti italiani degli anni ’60 e i materiali d’archivio che ne documentavano il lavoro. Il sangue verde intreccia le memorie a caldo di giorni segnati da eventi drammatici, l’identità rurale quasi rimossa degli italiani che facevano quello stesso lavoro 50 anni fa e la memoria mediatica, con dei brani di telegiornali che documentano i momenti della caccia al nero. Ciò che posso dire di aver scoperto è che quell’evento è stato usato per scopi di demagogia politica slegati dal vero problema, che è lo sfruttamento del lavoro da parte di un certo tipo di economia. Maroni trovò in quelle vicende l’occasione giusta per dire che gli africani non solo rappresentano un problema di per sé, ma si permettono anche di manifestare, e così ha ribadito un messaggio che portava voti.
Cosa emerge dal confronto tra i braccianti africani di oggi e quelli italiani di ieri?
Semplicemente che la fatica, le 12 ore di lavoro chinati a raccogliere pomodori sono impensabili per un italiano trentacinquenne di oggi, non rientra più in una normale percezione del quotidiano, in un’identità che è nostra. Eppure un’ampia percentuale di nostri connazionali ha vissuto e lavorato in quelle condizioni. Per questo oggi l’africano può essere considerato un “uomo nero”, simile a un animale. E’ una delle tante cause della trasformazione dell’Italia in un paese in cui attecchisce il razzismo.
A cosa allude il titolo?
A una frase di uno dei protagonisti, che rivendica la sua dignità dicendo di avere il sangue rosso come tutti, e non verde. E anche a un elemento fotografico del racconto; il verde all’inizio è il colore della natura dei luoghi, poi diventa il colore della paura.
Negli eventi di Rosarno hanno avuto un ruolo anche le infiltrazioni mafiose…
Sì, ma non era ciò su cui volevamo centrare la nostra riflessione. Quando giravamo tutti ci dicevano di stare attenti, di non farci vedere troppo con la telecamera in mano, ma in ogni caso non volevo arrogarmi il diritto di parlare dei rapporti tra ‘ndrangheta e società civile in quella terra, anche se non c’è dubbio che la criminalità avesse un ruolo nello sfruttamento dei braccianti. Per me era più importante sottolineare la gravità del fatto che in quei giorni sono stati attaccati gli immigranti senza dire una parola della ‘ndrangheta.
Che fine hanno fatto i protagonisti del film? Lo hanno visto? Saranno a Venezia?
Sono in contatto con tutti loro, il che fa parte del mio approccio partecipativo nel girare i film. Sono stati i primi a vederlo e ho discusso con loro prima di mandarlo a Venezia. Alcuni di loro cercheranno di essere presenti al festival.
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