VENEZIA E’ un’altra storia di immigrazione quella che Andrea Segre porta alle Giornate degli Autori, in questa edizione della Mostra molto sensibile al tema dell’accoglienza e del multiculturalismo (oggi era di scena anche Terraferma, ad esempio). Il suo Io sono Li – prima prova di finzione dopo una fortunata esperienza da documentarista con Come un uomo sulla terra e Sangue verde – è infatti un gioco di parole che si riferisce alla protagonista cinese Shun Li, ma anche al racconto empatico, delicato ed emotivo che il film le fa fare in prima persona. In modo che gli stranieri, gli “altri”, finiamo per essere noi. Magnificamente interpretata da Zhao Tao, attrice feticcio di Jia Zhang-ke, Shun Li viene trasferita da un laboratorio tessile romano a Chioggia a fare la barista; lì “aspetta la notizia” del momento in cui finalmente saranno ripianati i debiti del suo viaggio e potrà ricongiungersi con il figlio piccolo. A Chioggia incontra Bepi (il celebre attore slavo Rade Sherbedgia), pescatore-poeta arrivato trent’anni prima dalla ex-Yugoslavia e più propenso dei suoi compari a dare confidenza alla nuova arrivata. La loro amicizia, però, creerà presto sospetti e malumori tra i provinciali e diffidenti abitanti della laguna. Fra loro compaiono Marco Paolini, Roberto Citran e Giuseppe Battiston, tutti nei panni di abituali avventori dell’osteria in cui serve Shun Li.
Prodotto con circa due milioni di euro da Jolefilm con Aeternam Films in collaborazione con Rai Cinema e Arte Cinema, Io sono Li arriverà nelle sale il 23 settembre con Partenos, nuova società fondata da Andrea Occhipinti con degli esercenti.
Da che spunto nasce questa storia?
Da un episodio vero, tant’è che inizialmente pensavo di farne un documentario, mescolato a elementi personali. L’osteria del film è quella sotto casa di mia nonna a Chioggia, dove ho incontrato la vera Shun Li, le ho parlato e ho scoperto la sua storia. Poi sono rimasto a guardare cosa succedeva in osteria con lei come barista, e ho romanzato la sua avventura unendola alla storia del poeta.
Io sono Li racconta con grazia le vere condizioni emotive degli immigrati. Come ha affrontato l’argomento?
La prima persona del racconto è stata importantissima, in Italia non si è praticamente mai fatto, in parte ci ha provato Massimo Coppola lo scorso anno. E poi sapevo che in certe comunità cinesi di immigrati esisteva questo meccanismo della “notizia”: loro lavorano per ripagarsi viaggio e documenti pagati da altri, ma non sanno mai quando arriverà il momento in cui il debito è saldato. Ma non è un film di denuncia, volevo raccontare la paura del confronto, far vedere che spesso l’invidia e il desiderio di protezione dagli altri nascondono i punti di contatto e la ricchezza che portano. Shun Li e il poeta, staccandosi dalla paura degli altri, trovano uno spazio di comunicazione e una comprensione profonda.
L’ambientazione, in questo film, è decisiva narrativamente.
Sì, penso che quella parte di laguna abbia qualcosa di stranamente orientale. L’elemento più documentaristico di Io sono Li è proprio il rapporto con il territorio, non è una location, ma un personaggio coprotagonista, una delle caratteristiche centrali dei film neo-neorealisti.
Perché ha deciso di passare dal documentario alla finzione con questa storia?
Volevo tentare di lavorare con attori, che è la vera differenza artistica tra film e documentario. Prima lavoravo con persone per trasformarle in personaggi, ora cerco di trasformare dei personaggi in persone, facendo il percorso inverso. C’è stato un grandissimo lavoro di preparazione con loro. Ho lavorato un mese con Zao Thao prima delle riprese, per farla recitare in una lingua completamente diversa dalla sua. E’ stata la prima volta per lei fuori dalla Cina e in un film che non era di Jia Zhang-ke.
Ha scelto degli attori di grande talento per formare un cast insolito.
Quella di Rade è stata una scelta faticosa, ho vagato per dieci mesi prima di pensare a lui. Il fatto che fosse straniero mi ha spinto a cambiare la sceneggiatura, perché originariamente il suo personaggio era italiano. Ma mi piaceva l’idea che anche lui fosse di origini diverse. Invece Paolini, Battiston e Citran li ho scelti perché hanno saputo raccontare questa parte d’Italia, era importante coinvolgere queste voci e i loro spunti.
Sta già lavorando ad altri progetti?
Ho un documentario già in produzione sui profughi eritrei che stanno scappando dalla Libia e sono gli unici testimoni dei respingimenti e ho un nuovo soggetto collegato a questo documentario, che lo porta nella finzione.
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