VENEZIA – Non ho visto i film italiani in concorso a Venezia, ma lo farò appena possibile. Posso dire che ci sono autori, sia del passato che del presente, che stimo tantissimo e che mi ispirano. In generale mi auguro che ci sia più attenzione nei confronti del linguaggio cinematografico”. E’ una riflessione di Andrea Pallaoro, regista trentino ma da 23 anni negli States, che ha portato in concorso Monica. Il film – accolto con 11 minuti di applausi in Sala Grande – è il secondo capitolo di una ideale trilogia, iniziata con Hannah (Coppa Volpi per Charlotte Rampling): “Il tema che affronto è quello dell’abbandono e delle dinamiche del non essere accettati e riconosciuti. Ma mentre Hannah è una donna che non riesce ad alzarsi, Monica è una donna moderna, che sa perdonare”.
Con uno sguardo molto personale, incollato alla protagonista che viene quasi spiata nei suoi sentimenti più intimi, la macchina da presa di Katelin Arizmendi segue la protagonista Trace Lysette, qui nel ruolo di una giovane donna molto bella e inquieta, che non riesce a entrare in contatto con l’uomo che ama, a cui telefona di continuo. Lentamente e quasi impercettibilmente ci rendiamo conto che Monica ha un segreto: il processo si innesca quando arriva a casa della madre, gravemente malata (Patricia Clarkson), capiamo che sono molti anni che manca e la madre neppure la riconosce. Capiamo che nella sua vita c’è stata una grande trasformazione che la sua famiglia non ha accettato.
Di Trace Lysette si è molto parlato perché ha da poco completato la sua transizione. Resa famosa dai ruoli nella serie Transparent e Law and Order, ammette di aver attraversato momenti bui, come quando, a 25 anni, voleva mollare tutto. Su consiglio di un amico che non c’è più iniziò i corsi di recitazione. Oggi vorrebbe essere considerata “un’attrice e basta, anzi forse un attore, senza specificazioni di genere, perché un attore è un interprete e cambia a seconda dei ruoli. Ma capisco che le trasformazioni in corso a Hollywood, anche da questo punto di vista, richiedono tanto tempo e pazienza”.
Il regista, che regala spessore personale a questo e altri suoi personaggi (“sono parti di me e dei miei cari e mi permettono di esplorare le mie esperienze”) e confessa di aver così elaborato la vicenda della malattia di sua madre, l’ha scelta subito, tra trenta candidate: “E’ bastato il primo incontro, per la sua capacità di essere piuttosto che recitare e per il fatto di aver capito subito lo spazio psicologico del personaggio”.
“Quando ho letto lo script ho colto subito la verità intorno a questa donna transgender, la complessità delle relazioni con la sua famiglia, con Andrea poi c’è stata una sorta di collaborazione anche prima di iniziare a girare”, dice Trace Lysette, che afferma di aver attinto anche alle proprie esperienze personali ma preferisce non parlare della sua famiglia. E aggiunge di avere anche improvvisato, per esempio nelle telefonate. Entusiasta del metodo di lavoro di Pallaoro anche la coprotagonista, la bravissima Patricia Clarkson che addirittura dice: “lui ti rende un’attrice migliore”. E che sostiene in tutti i modi la collega Lysette, sia con parole affettuose, quasi materne, che con sguardi partecipi.
“Rispetto ad Hannah credo che questo sia un film più affettuoso, più caldo, quello di Monica è un personaggio che offre una sorta di paradigma di coraggio e generosità, che riesce a perdonare e a rialzarsi, Hannah invece non ce la faceva”, dice ancora il regista, che sull’aspetto estetico del film (con l’aspect ratio di 1.2:1) spiega: “Con la direttrice della fotografia volevamo trovare un modo di esaltare il soggetto rispetto al paesaggio, fare in modo soprattutto che due o più corpi nella stessa inquadratura venissero percepiti in un rapporto di co-dipendenza e di soffocamento, con un senso di claustrofobia, cosa che per noi era fondamentale e ci ha aiutato ad usare il fuoricampo per evidenziare ancora di più il rapporto tra interno ed esterno, tra psicologico e fisico”. E poi sul finale che apre alla speranza: “La scena che abbiamo scelto, dopo molte indecisioni, è quella che apre al futuro, un futuro in cui non ci saranno gli stessi traumi vissuti da Monica”.
La cosa fondamentale, però, tiene a precisare il regista, è che “ogni scelta narrativa, concettuale, formale, in tutte le fasi della produzione ha al suo centro il rapporto con lo spettatore, verso il quale nutro sempre un’enorme fiducia: questo perché quando realizzo un film mi immagino sempre dall’altra parte dello schermo e il rapporto che cerco è quello che porta a una catarsi individuale, personale, dove si suggeriscono domande piuttosto che risposte”.
Difficoltà di realizzazione tante. “Tre location ci hanno impedito di girare sapendo il tema che trattavamo, purtroppo nell’America profonda che ha votato Trump accade”, racconta il regista che ama il cinema di Michelangelo Antonioni, Fassbinder, Lucretia Martel, Tsai Ming-liang.
Il film, prodotto in collaborazione con Rai Cinema, uscirà in Italia con I Wonder Pictures.
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