TRIESTE – Un pugno di film, un po’ di fiction, molto teatro. Dal teatro ha cominciato e lì sta tornando con un progetto ispirato a Beppe Fenoglio (Le colline come vivo acciaio) che servirà a sostenere la candidatura delle natìe Langhe a Patrimonio dell’Umanità per l’Unesco. Andrea Bosca, 31 anni tra pochi giorni, è stato ospite d’onore al Festival Maremetraggio. Occhi azzurri che si interessano davvero a ciò che lo circonda, è un attore giovane che è già stato diretto da grandi della scena come Luca Ronconi e Mario Martone. Nel monumentale Noi credevamo era l’intransigente patriota Angelo. Scelto dal regista napoletano nonostante tutto. Da piemontese ha imparato il dialetto cilentano come fosse una lingua straniera, ascoltandolo in cuffia mentre faceva le pulizie di casa. In scena ha messo la parrucca e le lenti a contatto scure per avvicinarsi fisicamente a Valerio Binasco (che è Angelo da adulto): “Erano lenti non graduate e io, da miope, non vedevo quasi niente… Recitavo alla cieca, ma ero diretto da un pensiero forte che condividevo con Binasco: Angelo ci faceva pensare a Caino nel suo cinismo disperato e rabbioso”.
Di Andrea Bosca sentirete parlare ancora molto presto, magari a Venezia, dove potrebbe approdare il suo ultimo lavoro, Gli sfiorati di Matteo Rovere, dal romanzo di Sandro Veronesi, che il regista (rivelato dall’opera prima Un gioco da ragazze) e gli sceneggiatori, Laura Paolucci e Francesco Piccolo, hanno dirottato dagli anni ’80 al presente. Per parlare dei ventenni contemporanei, di una generazione “liquida”, che si getta a capofitto nell’esistenza senza mediazioni, affrontando tutto sull’onda dell’istinto, che vive cose molto forti restando apparentemente indifferente. Mentre Mete li osserva.
Mete, il suo personaggio, è un grafologo…
Mete viene raccontato in una sola settimana, quella che precede il matrimonio di suo padre, un padre che per lui è quasi uno sconosciuto e che con cui non condivide quasi nulla se non la passione per il calcio. Mete, come grafologo, è abituato a studiare la personalità degli altri, a capirli, ma resta enigmatico a se stesso. Inoltre è uno che resiste all’attitudine circostante pur desiderandola molto, è contraddittorio e ambivalente. E’ un personaggio che mi è costato molto in termini di nudità emotiva, il filo rosso di tutti i personaggi che ho fatto finora.
Da come ne parla è difficile credere che “Gli sfiorati” sia una commedia.
Lo è e anche il mio personaggio arriva alla fine a una sorta di leggerezza. Fa ridere il fatto che potrebbe risolvere la situazione in cui si trova e invece fa tutto il contrario. E’ messo alla prova dall’incontro con la sorellastra spagnola Belinda: c’è tra loro un rapporto molto profondo da cui lui cerca di allontanarsi.
Ha conosciuto Sandro Veronesi?
Sono un suo fan ma non l’avevo mai incontrato fino a quando è venuto sul set, un giorno che giravamo una scena molto importante e difficile. Poi l’ho ritrovato a Massenzio al Festival delle Letterature, dove insieme abbiamo letto un suo testo, “Caviglie bianche”, in cui io sono un ragazzo che convince il padre di un suo amico a comprare una casa vicino a Fukushima. Un testo straordinario sul potere della parola e della manipolazione, inquietante ma anche ironico, divertente.
È vero che ha studiato grafologia per il ruolo?
Sì, ho frequentato dei corsi al Seraphicum, ho scoperto che la grafologia è una scienza quasi medica che ha molto a che fare con la psicologia ma anche con la criminologia. Mi sono appassionato… Attraverso la calligrafia si possono capire tante cose degli altri, se stanno bene o sono malati, se hanno figli, se sono sinceri o megalomani… E anche di se stessi. La mia, per esempio, è una scrittura piccola, introspettiva, pare che io abbia molta capacità di penetrazione psicologica.
Parlando di lei molti insistono sulla sua fragilità, forse è un aspetto che le è rimasto addosso dal personaggio di Gigio, il matto romantico di “Si può fare”.
Non posso sfuggire a questa definizione, anche se vorrei tanto scrollarmela di dosso… ma adesso non la subisco più, ho accentuato in me l’aspetto del gioco, penso alla fragilità come una forte sensibilità. Credo che il fatto di aver attraversato la crisi, ti permetta di comunicare con molte più persone perché la crisi è un tratto comune a molti, in questi tempi. Ognuno di noi ha delle ferite che possono anche servire ad allargare l’immaginazione.
Ha iniziato come figlio di Claudio Bisio in “Amore, bugie e calcetto” e Bisio ammette di essere rimasto colpito dal suo metodo ‘maniacale’: la dieta e lo stare a lungo da solo con la musica nelle cuffiette.
Nel film di Luca Lucini, una commedia corale con tanti personaggi, io ero appena un panchinaro, allora ho creato dei difetti, delle contraddizioni al mio personaggio e ho lavorato sul corpo con la dieta e la palestra. All’inizio di ogni nuovo progetto vado in crisi profonda, mi sento inadeguato, ma mi aiuta pensare a Carmelo Bene che diceva “bisogna diventare stupidi con competenza”.
Dopo “Si può fare” ha lavorato in un’opera prima come “Febbre da fieno” di Laura Luchetti, dove aveva il ruolo di un ragazzo sognatore che non riesce a superare una delusione amorosa e neanche a vedere la seconda occasione che la vita gli sta offrendo.
Quello di Matteo in Febbre da fieno era un personaggio molto lontano dai miei interessi, appassionato di vintage al punto da trovare lavoro in un negozio di modernariato. La chiave del ruolo è stata una scatola di latta dentro cui è rimasta chiusa una foto di Marlon Brando. È tra le mie passioni, con James Joyce, Cesare Pavese, Al Pacino di cui amo in modo particolare un libro intervista degli anni ’70 a Larry Grobel. Grobel gli ha fatto vincere la sua riluttanza a parlare con i giornalisti. Anche in un’intervista ci può essere uno scambio autentico…
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