Un padre e un figlio stanno tornando a casa a mezzanotte, a bordo di un’auto scassata in un bel quartiere residenziale. Quel padre e quel figlio sono neri. E tanto basta a due poliziotti di pattuglia per fare una semplice equazione: sono due malviventi, forse due spacciatori. Col pretesto di un eccesso di velocità fermano la vettura e nel giro di pochi minuti si scatena un paradosso mortale. Il telefonino che il giovane – promettente studente di college e appassionato lettore della Costituzione americana – brandisce per riprendere la scena viene scambiato per un’arma e il quattordicenne è freddato da uno dei poliziotti.
Una scena che tante volte abbiamo visto, anche al cinema e purtroppo nella realtà. Tra il 2013 e il 2018, su 100.000 giovani afroamericani di età compresa tra i 25 e i 29 anni, il tasso di mortalità come conseguenza dell’uso della forza da parte della polizia è pari al 3,4%. Il caso eclatante della morte per arma da fuoco del diciottenne Michael Brown per mano di un agente è servito da cassa di risonanza per svegliare l’opinione pubblica su quella che ormai è diventata una piaga degli Stati Uniti. La legge, che consente al cittadino di ribellarsi agli abusi di potere, non sembra valere per chi ha la pelle scura, come se questa non fosse una “pelle americana”.
Attore e regista impegnato, afroamericano militante, ma anche al centro di un’accusa di stupro, il quarantenne Nate Parker (Birth of a Nation) impagina un film manifesto del black lives matter, ispirandosi proprio alla vicenda di Michael Brown con una sorta di falso documentario-intervista che finisce come un mix tra Quel pomeriggio di un giorno da cani e La parola ai giurati.
Coprodotto da Spike Lee che l’ha presentato alla 76esima Mostra di Venezia, dove ha vinto il premio del pubblico nella sezione Sconfini, American Skin si apre appunto con le immagini traballanti e concitate del fermo, prosegue con l’incontro tra uno studente di cinema e il padre della vittima (lo stesso Nate Parker) e, dopo la sentenza che dichiara l’agente non imputabile di omicidio, si conclude con un’azione militare che il protagonista, ex marine, intraprende insieme ad alcuni parenti ma sempre con i videomaker al seguito.
Presa in ostaggio la stazione di polizia dove lavora il poliziotto omicida, viene allestito un processo usando come giurati i cittadini che si trovavano per caso nell’edificio – magari per sporgere una denuncia o pagare una multa – e alcuni detenuti in stato di fermo. Film a tesi, naturalmente, ma con molti spunti di riflessione: a partire dal razzismo, di cui nessuno si sente mai “colpevole” ma che influenza azioni e comportamenti non solo negli Stati Uniti. Ma è anche interessante comprendere le ragioni degli agenti, che vengono istruiti a reagire immediatamente con le armi da fuoco a ogni minaccia vera o presunta e che sono convinti – compresi quelli afroamericani o latinos – che la maggior parte dei neri siano dei delinquenti pericolosi. Girato a Los Angeles, ma coprodotto dall’italiana Eagle Pictures di Tarak Ben Ammar, American Skin arriverà in sala il 30 aprile.
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