Una giovane donna appena uscita dal carcere che cerca di riconquistare suo figlio (nella prima scena la vediamo prostituirsi in cambio di un giocattolo da regalargli) e un pescatore che vive con la madre e il fratello dopo che ha perso il padre in una burrasca in mare. Sono Angèle e Tony. E il film di Alix Delaporte, tra le opere prime selezionate dalla Settimana della critica alla Mostra di Venezia 2010, arriva ora in sala con la Sacher di Nanni Moretti. Una trentina di copie, alcune delle quali in versione originale. Che vi consigliamo per apprezzare appieno la sottile recitazione di Clotilde Hesme e Grégory Gadebois. I due attori, amici nella vita da molti anni, si sono immersi nell’atmosfera di un piccolo villaggio della Normandia, descritto dalla regista – che ha un passato di giornalista televisiva – con grande precisione e verità. “Ho trascorso molte estati a Port-en-Bessin, dove mia madre e mia nonna sono nate – ci racconta Alix – e ho sempre visto i pescatori come personaggi romantici, gente che passa la maggior parte del proprio tempo in mare, isolata da una certa forma di realtà, ma capace, quando perde le staffe, di far paura ai politici. Avevo in mente anche le immagini dei pescatori che lanciano il pesce contro la polizia e ho lavorato con Claire Mathon, autrice della fotografia, a renderli belli ed eroici grazie alla luce e ai filtri”. Bella, di una bellezza che ha in sé la durezza di un ‘ragazzo selvaggio’, è Clotilde Hesme, che ha trovato alcuni spunti nel personaggio di Sandrine Bonnaire in Senza tetto né legge, mentre Grégory Gadebois è un attore della Comedie francaise, ma per la gente del villaggio aveva “i nostri stessi occhi”. Angèle e Tony, quasi contemporaneamente all’uscita nelle sale il 29 aprile, inaugura stasera a Roma la Primavera del cinema francese alla Casa del cinema e sarà poi anche a Palermo con la stessa rassegna.
Aveva già lavorato con Clotilde Hesme nel cortometraggio che ha vinto il Leone del corto nel 2006 a Venezia, “Comment on freine dans une descente”: è partita da lei per costruire questo suo primo lungometraggio?
In realtà no, per un certo tempo, anzi, pensavo di dover trovare un’altra attrice per il ruolo di Angèle, una che fosse più giovane e più semplice, anche meno bella, più simile all’idea che abbiamo di una sbandata… Ma poi mi sono detta che Clotilde, di cui ho una fiducia assoluta, avrebbe dato al personaggio un aspetto romantico. Io avevo preso le mosse da un’immagine, quella di Angèle con suo figlio tra le braccia alla fine del film e volevo raccontare una storia che portasse a questa immagine, quindi una storia d’amore in cui c’è una madre che è un po’ animalesca e che scopre via via il sentimento amoroso.
Nel suo approccio, che unisce in modo abbastanza sorprendente la vena sentimentale e quella sociologica, quanto conta la sua esperienza come reporter?
Io perdo molto tempo sulla scrittura, in questo caso più di due anni. Scrivo delle cose che mi toccano personalmente e non lascio molto spazio al caso. Scrivo le scene e poi ci torno sopra per togliere tutte le parole che non sono essenziali, io stessa sono una che parla poco. Il mondo dei pescatori, certo, lo conoscevo bene. È un mestiere che sta sparendo, perché ormai tutto il pesce arriva dalla Thailandia. Quindi questa comunità mi interessava molto, come pure le donne che formano quasi una società ideale. Angèle vede in loro un calore che non sembra conoscere. Anch’io ho osservato tutto questo, come lei, con lo sguardo della giornalista che ero, cioè con la capacità di guardare gli esseri umani e il modo in cui si comportano in silenzio.
Se mi passa il paradosso: come si arriva a ‘costruire’ la verità?
Bisogna fidarsi degli attori. In realtà ci sono due modi di arrivare alla verità: si può fare come fanno i Dardenne o Bruno Dumont, che lavorano con non professionisti, oppure ci si può affidare al talento di attori molto bravi, che sono più veri del vero. Clotilde Hesme non è stata in prigione ma sa come si sente una ragazza che è appena uscita dal carcere e a cui hanno tolto il figlio. Comunque abbiamo girato molta parte del film in modo cronologico, specialmente quello che riguarda il suo rapporto col bambino, un bambino che davvero non vedeva sua madre da molto tempo. Grégory lo avevo visto recitare a teatro con Clotilde e ho pensato che potesse essere il muro contro cui avrei mandato a sbattere Angèle. Ho sempre pensato che il film sarebbe riuscito se, alla fine, ci fosse venuta voglia, come spettatrici, di stare tra le sue braccia.
La Francia sforna un numero molto alto di opere prime spesso di altissimo livello per maturità e complessità di scrittura e di stile. Come si spiega questa tendenza? Dipende dal sistema dei finanziamenti, dalla fiducia dei produttori verso gli esordienti, dalle vostre scuole di cinema e dalla palestra del cortometraggio, che è molto praticato? O da tutte queste cose insieme…
Intanto io non credo che in Francia le cose vadano meglio che, per esempio, negli Stati Uniti, dove le opere prime sono straordinarie, però devo dire che siamo abbastanza fortunati rispetto al resto d’Europa. È il sistema che, complessivamente, ci dà tempo e possibilità di trovare i finanziamenti. Da noi è più difficile scrivere che trovare i soldi. C’è un sistema che aiuta il cinema in generale e questo fa sì che circoli molta energia. I produttori non sono dei dilettanti che montano dentro un garage, ma dei veri professionisti con molta esperienza. Però bisogna dire che sappiamo anche fare sacrifici e compromessi: questo film ha un budget di meno di un milione di euro, molto piccolo dunque. A volte gli attori si cambiavano per la strada e avevano un solo truccatore in trenta oppure si accontentavano di mangiare un panino. Quando ho girato il mio primo cortometraggio, il protagonista ha accettato di lavorare con me in cambio di una maglietta con l’autografo di Zidane… siccome io avevo fatto un documentario su di lui, sono riuscita ad averla e così ho cominciato.
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