Alina Marazzi, video-diario del femminismo


Ha avuto l’onore della Piazza Grande di Locarno, lo scorso agosto, Vogliamo anche le rose, il nuovo documentario di Alina Marazzi, ulteriore tappa di un percorso di genealogia femminile partito proprio da questo festival, nel 2002, con il bellissimo Un’ora sola ti vorrei. Dopo aver ricostruito il rapporto mancato con sua madre Liseli, morta quando lei aveva otto anni dopo un doloroso percorso di depressione e ricoveri in cliniche psichiatriche, passata poi per l’esperienza di Per sempre, film sulla clausura come scelta d’amore assoluto e quasi anacronistico, ecco la cineasta milanese a fare i conti con il femminismo, le sue parole d’ordine, le conquiste mai definitive. Strenua nel definirsi documentarista per la libertà e i tempi lunghi di elaborazione che questo le garantisce, prosegue la sua ricerca di “madri” simboliche. In una mescolanza di materiali di repertorio privati (i super8) e pubblici (Teche Rai, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, Cineteca di Bologna), di film sperimentali e rari filmati dell’underground (Alberto Grifi, Annabella Miscuglio, Adriana Monti, Alfredo Leonardi, Loredana Rotondo…) e di testi scritti, come i diari dell’Archivio di Pieve Santo Stefano, le lettere, o le conversazioni con le testimoni di quegli anni come Lea Melandri o Serena Sapegno, che è tra le autrici del libro “Baby boomers”, infine attraverso le foto, tra cui gli scatti di Paola Agosti, il materiale d’animazione, sia d’epoca che creato oggi da Cristina Seresini, i fotoromanzi e le riviste. Un film di montaggio, dunque, che fa archeologia degli anni ’60-70 andando verso esistenze consumate in una lotta interiore, oltre che nelle grandi manifestazioni di piazza per il divorzio e l’aborto. Temi già toccati da Giovanna Gagliardo nei due capitoli di Bellissime, altra video-storia delle donne italiane, ma qui coniugati anche in termini di quel prezzo personale che è stato necessario pagare per una liberazione tuttora incompiuta e forse mai del tutto realizzabile. Vogliamo anche le rose, coproduzione italo-svizzera che coinvolge Rai Cinema e la RTSI, sarà distribuito da Mikado.

“Vogliamo anche le rose” vuole raccontare dunque la liberazione sessuale in Italia da un punto di vista personale oltre che collettivo.
Sì, è per questo che ho accostato alle immagini di repertorio tre percorsi individuali ricavati da tre diari di Pieve Santo Stefano, che ho rivisto insieme alla scrittrice Silvia Ballestra. Sono tre donne, che chiameremo Anita, Teresa e Valentina, che scrivono in tre diversi momenti del percorso, il 1967, il ’75 e il ’79, coprendo oltre un decennio di storia dell’identità femminile.

Chi sono queste donne che raccontano in prima persona la loro dimensione sessuale e affettiva.
Anita è una donna di estrazione borghese che si sente oppressa dall’educazione cattolica e si iscrive all’università mentre esplode il ’68. Teresa vive in provincia di Bari e viene a Roma per praticare un aborto clandestino con l’aiuto dell’Aied. Valentina infine è una ragazza politicamente impegnata che frequenta il collettivo di Via del Governo Vecchio. I loro diari sono letti da tre attrici: Anita Caprioli, Teresa Saponangelo e Valentina Carnelutti, mentre i loro volti sono quelli di tre donne reali, anche se non le stesse che scrissero il diario, riprese in super 8 d’epoca. Queste donne parlano di se stesse e della relazione col proprio corpo e con l’altro, il maschio. Dunque parlano anche della comunicazione o non comunicazione, molto più che di questioni ideologiche.

Come ha vissuto la stagione del femminismo?
Sono nata nel 1964 e forse anche per la mia storia personale sono arrivata tardi a ripercorrere quella stagione. Mia madre, che è morta nel ’72, è stata in qualche modo schiacciata dalle convenzioni borghesi. Il suo malessere era condiviso da molte altre donne che sentivano, anche se in forme diverse, l’inadeguatezza e la frustrazione. Io, avendo perso lei, ho dovuto cercare delle madri simboliche e in un certo senso i miei film fanno parte di questo percorso.

Quella del femminismo è una stagione cronologicamente vicina, ma che sembra già sepolta nella memoria collettiva, lontana dalla sensibilità di chi oggi ha vent’anni.
È vero, ed è stato necessario un lavoro preliminare di ricostruzione, parlando con tante donne attive in quegli anni, che frequentavano la Libreria delle Donne di Milano o la Casa delle Donne di Roma. È importante ricordare quel periodo di grandi cambiamenti perché oggi tante cose si danno per scontate. E lo faccio io per prima.

Cosa è andato perduto?
Ci sono state molte conquiste, a livello normativo. Ma c’è stata anche una dispersione di energie ed è mancato un passaggio di saperi. A livello diffuso il femminismo ha cambiato le relazioni e il linguaggio, ma intimamente le cose non sono mutate poi troppo. Quella italiana è una società patriarcale dove la Chiesa ha un’ingerenza enorme su ognuno di noi. Certi ruoli li abbiamo metabolizzati e spesso ci autocensuriamo. Ma anche a livello collettivo il cambiamento non va dato per acquisito. Alla fine del film ho voluto indicare le date principali della liberazione, dal referendum sull’aborto alla liberalizzazione della pillola, ed è incredibile quanto certe conquiste siano recenti. 

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27 Febbraio 2008

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