CANNES – Forse si potrebbe partire da un’immagine, quella di Gelsomina e delle api che escono dalla sua bocca. Un’immagine magica e misteriosa come è l’opera seconda di Alice Rohrwacher, Le meraviglie, unico film italiano in concorso a Cannes, dal 22 maggio nelle nostre sale con la Bim. Il film di una regista giovane, 33enne, già autrice del premiato Corpo celeste, scoperto proprio qui a Cannes. Un’autrice nutrita di cinema – non mancano echi felliniani e lei cita un nome su tutti, quello di Rossellini – ma anche di letteratura e di arte. E soprattutto capace di reinventare una storia “molto personale”, come la definisce preferendo non parlare di autobiografia, in chiave di favola dove si mescolano gli echi degli anni ’70 e dell’antagonismo politico con la costruzione di un’identità femminile contemporanea.
Gelsomina (Maria Alexandra Lungu) è una ragazza che si affaccia all’adolescenza ma ha ancora un piede nell’infanzia. È la maggiore di quattro sorelle e vive in campagna, nell’Italia centrale, con il padre Wolfgang, tedesco (il danzatore fiammingo Sam Louwyck), e la madre italiana (Alba Rohrwacher). Il papà fa l’apicultore, si capisce che ha scelto questa vita per sfuggire a qualcosa (la storia si colloca in un tempo non precisato dopo il ’68) e continua a proteggere la sua famiglia dalle minacce del mondo esterno (che crede prossimo a un’apocalissi): la tecnologia, i soldi, la televisione. Coltiva un’utopia che non è più tale e costringe le bambine – siamo durante le vacanze estive – al duro lavoro del miele. È un marziano persino rispetto ai vicini di casa, agricoltori che preferiscono usare i diserbanti che gli ammazzano le api. Fa un miele all’antica che non va più bene con le norme igieniche imposte dalla Comunità europea. Gelsomina è anche il maschio che Wolfgang non ha avuto, è quella che tiene in piedi la baracca, che fa rispettare le regole, la sua erede. La figlia prediletta. Ma lei sta cercando la sua strada e la sua strada la porta a ribellarsi alle strane regole della sua famiglia, a scoprire i suoi talenti unici (ognuno di noi ha i suoi). A immaginarsi altrove. Magari grazie alla presenza di Martin, un silenzioso ragazzo tedesco che la famiglia ha preso in affido – è un piromane e ladro – in cambio di qualche soldo in più. Perché i soldi comunque fanno comodo. Gelsomina poi è affascinata dall’apparizione della fata televisiva Milly Catena (Monica Bellucci), la conduttrice di un programma che cerca storie vere tra gli abitanti del posto. Le meraviglie è prodotto da Carlo Cresto Dina con Rai Cinema, coproduttori tedeschi e svizzeri e il sostegno del MiBACT.
Alice, le somiglianze tra questa storia e la sua biografia sono evidenti.
È vero, è questo l’aspetto che si vede di più. Racconto la mia regione, quella zona tra il Lazio, l’Umbria e la Toscana, il mondo delle api, una famiglia doppio sangue, tutte cose che mi appartengono, ma non è un’autobiografia anche se certamente è un film molto personale.
La presenza di Alba, sua sorella maggiore, nel ruolo della mamma di Gelsomina è stata d’aiuto?
È stato tutto sorprendentemente naturale tra noi. Lavorare con mia sorella è stato come per voi poter scrivere l’articolo da casa, magari in pigiama. A casa propria si possono fare anche delle scoperte, per questo dico sorprendente.
Le meraviglie è una fiaba.
È una fiaba fatta di materia in cui si mostra che il lavoro e la vita sono collegati, che non c’è separazione nel vivere con gli animali. In altri ambienti, cittadini, urbani, questa separazione c’è.
Lavorare con le api è stata una sfida?
Ci ha molto aiutato il produttore, Carlo Cresto Dina, ha capito che era importante dare ai ragazzi il tempo di imparare davvero ad avere a che fare con le api, abbiamo avuto tutto il tempo di provare. Meno facile è stato col cammello che è arrivato alla fine delle riprese. Un conto è immaginare un cammello, un conto è vederlo.
Il personaggio del padre appare contraddittorio, duro, quasi autoritario, ma allo stesso tempo pieno di amore per le figlie che vuole a suo modo proteggere. E anche timido.
È qualcuno che sa bene quello che vuole dire, ma è chiuso in una prigione linguistica, perché non parla bene la lingua, né l’italiano né il francese che usa a volte con la moglie, e questo lo rende aggressivo. C’è una grande solitudine in lui.
L’irruzione della televisione nella storia, uno snodo narrativo che banalmente può ricordare Reality di Matteo Garrone, prende un’altra direzione, sognante e astratta, piuttosto felliniana.
È una televisione direi molto dolce. Provoca dolore ma quel dolore non è dovuto a quello che la televisione in Italia è diventata storicamente, ma al mezzo in se stesso. La tv infatti è una scatola e questa è una famiglia che non si può inscatolare. Quelli del programma Il paese delle meraviglie sono come alieni che arrivano in un territorio. Non hanno intenzioni cattive, però è il mezzo ad essere cattivo, cattivo in senso etimologico, cioè chiuso.
Perché ha voluto Monica Bellucci nel ruolo di Milly Catena?
È difficile immaginare un’altra persona al posto di Monica in quel ruolo. Serviva un’icona indiscussa che arrivasse nel paese dove abbiamo girato con molti non professioni. Monica tutti la conoscevano e per tutti aveva un significato. E poi lei è dotata di grandissima autoironia.
La scelta della canzone di Ambra “T’appartengo” e la citazione di Ulrike Meinhof collocano la vicenda, che pure è astratta, in un contesto anni ‘90.
Non sappiamo esattamente di quando stiamo parlando, io dico solo che questa storia avviene dopo il ’68. Ed è perché nel ’68 si è rotto qualcosa e si è dovuti tornare a rimettere insieme i pezzi. Questa storia però riguarda il presente, è venuto il tempo di perdonare qualcosa che è stato. Il mio desiderio era seguire la figlia primogenita fino al momento in cui può provare tenerezza per se stessa e per la sua storia, tenerezza e non esaltazione o rabbia. Perché la tenerezza le permette di fare un passo in avanti.
Le registe continuano ad essere una minoranza anche se una minoranza sempre più visibile e autorevole. Quest’anno la presidente della giuria è una donna, Jane Campion, e l’Italia porta in concorso il film di una donna. Segnali di un cambiamento?
Sono felice che ci siano sempre più registe e non vedo l’ora che questa domanda non abbia più senso. Spesso si insiste troppo nel voler esaltare gli aspetti femminili o maschili di un lavoro, bisognerebbe guardare un’opera indipendentemente dal sesso dell’autore, ma è vero che ci sono delle lacune e non dobbiamo dare per acquisita questa lotta. Però bisogna dire che quest’anno è una buona annata.
Il nome Gelsomina è un omaggio a Fellini?
È il nome che i genitori hanno dato al personaggio e quindi dice qualcosa di loro oltre che di lei. Il nome è un modo per raccontare qualcosa che resta sottinteso, infatti le altre figlie si chiamano Marinella, Caterina e Luna.
Il conflitto tra Gelsomina e suo padre si esprime quasi sempre in modo indiretto, ambivalente.
Ci sono tanti modi di esprimere un rapporto conflittuale. Del resto Gelsomina è l’unica figlia che prende sul serio suo padre, mentre le altre si mettono a ridere di fronte al suo autoritarismo.
Anche i film di Asia Argento e Sebastiano Riso, qui sulla Croisette, parlano di adolescenza. Può non sembrare un caso.
Qui c’è spazio per immaginare tutte le metafore che volete. Possiamo dire che l’Italia vive una nuova adolescenza, che ha voglia di uscire dall’infanzia, ma non sa ancora dove andare.
Crede che questo film parli della sconfitta di un’utopia?
Parla di sconfitta ma soprattutto di perdono. Ho fatto ben attenzione a evitare che ci fossero buoni o cattivi. Nel passato forse ci sono delle colpe, ma nel presente siamo tutti sulla stessa barca. E ci sono due possibilità, proteggersi o esporsi. Wolfgang, per amore della figlia, accetta di esporsi e fallisce, ma molto spesso accade che chi si espone fallisca. E io volevo guardare con tenerezza le contraddizioni di quest’uomo e di questo paese. Del resto il potere delle immagini è proprio questo, mostrare la contraddizione senza annullarla.
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