VENEZIA – L’unica opera prima in concorso a Venezia 79 è Saint Omer dalla regista francese Alice Diop, un film rigoroso e intenso, con uno sguardo forte e punto di vista originale su un tema come quello della maternità, che viene vista attraverso la lente di un processo per infanticidio con rimandi precisi al mito di Medea (le immagini della Medea di Pasolini, del 1969, ci guidano in uno dei momenti più drammatici della narrazione).
“Questa è una storia complessa di due donne di colore. Ho permesso loro di poter essere ascoltate in tutte le loro incertezze, insicurezze e timidezze. In un certo senso è anche qualcosa di molto politico”, afferma oggi Alice Diop, classe 1979, un César per il cortometraggio Vers la tendress. Il titolo, Saint-Omer, indica semplicemente il luogo dove si svolge il processo contro Laurence Coly (Guslagie Malanda), una giovane donna di origine senegalese, intelligente e colta, che ha confessato l’omicidio della figlioletta di quindici mesi. La ha abbandonata sulla spiaggia di notte, dopo averla nutrita e cullata, contando sull’arrivo dell’alta marea. Forse sta manipolando la sua storia, forse è una scaltra bugiarda oppure è vittima di una grave depressione, di una lucida follia. Assiste al processo anche la giovane scrittrice Rama (interpretata da Kayije Kagame), che ha scoperto di essere incinta di quattro mesi e ha una storia familiare complessa, tanto da identificarsi in qualche momento con la processata, vivendo intensi timori.
“Nel giugno del 2016 – racconta Diop – ho assistito al processo di una donna senegalese che aveva ucciso la figlioletta abbandonandola su una spiaggia in Francia. Ho pensato che la donna avesse voluto offrire la figlia al mare, una madre ben più potente di quanto non potesse essere lei stessa. Ho voluto subito capire le ragioni oscure che mi facevano interessare a questa donna. Il suo processo mi ha colpito moltissimo. E mi ha anche colpito che vi erano quasi tutte donne: giornaliste, avvocatesse e così via. Ho visto nella sala quanto queste donne si stessero facendo trasportare dalle emozioni. Ognuna aveva la propria bolla di solitudine che viveva a modo suo”. E c’è una scena, in sottofinale, in cui l’avvocata della difesa prende la parola e illustra la tesi secondo cui, biologicamente, una madre e una figlia siano inestricabilmente connesse, per sempre, anche quando una delle due non c’è più.
Scritto dalla stessa Alice Diop in collaborazione con la famosa autrice Marie Ndiaye (“lei ha partecipato al processo di appello e poi abbiamo messo insieme i nostri appunti”) e Amrita David, il film parte da questo processo che fece molto scalpore e lo eleva a qualcosa di universale, mostrando anche la complessità dell’approccio alle culture africane per gli occidentali. “Mi sono ispirata a questa storia vera – prosegue la regista – e poi spinta da un’immaginazione intrisa di figure mitologiche ho scritto questo film su una madre infanticida con lo scopo di scrivere una rivisitazione contemporanea del mito di Medea. Ho voluto girare questo film per sondare l’indicibile mistero dell’essere madre”.
“Quando ho assistito al processo è successo qualcosa di strano – spiega Alice Diop – Lei raccontava il suo atto nei minimi dettagli. Era un racconto molto letterario e mi sono chiesta se lo stava romanzando: parlava in modo lirico, non si sentiva quasi la violenza. La vera imputata aveva già fatto un suo storytelling. C’era qualcosa che mi sembrava familiare in questo suo modo di raccontare. Mi sembrava di aver già sentito questa storia da qualche parte e poi ho visto il film di Pasolini e là sono rimasta stupefatta. Mi sono chiesta se lei non avesse plagiato volontariamente questo passaggio del film. Alla fine ho deciso di collegare questa storia di cronaca a qualcosa di molto più epico e mitologico, a una storia antica. Inoltre Pasolini è uno dei cineasti che ha contribuito di più al mio divenire di regista quindi mi sembrava piuttosto naturale convocarlo”.
E Guslagie Malanda aggiunge: “Ho lavorato su questo personaggio cercando di rendere domabile la sua complessità e al tempo stesso ho cercato di non lasciarmi troppo sopraffare da questo tragico caso di cronaca francese, con tutte le questioni problematiche e difficili che si porta dietro. La regista ha reso tangibile e intelligibile contemporaneamente questa complessità”.
Un film di volti e di suggestioni visive dove tuttavia la parola assume un’enorme potenza e ogni parola rimane scolpita nella memoria dello spettatore. “Ho cercato di creare una trama che intensificasse la voglia di ascoltare – precisa la regista – Volevo offrire a questa donna l’intensità di uno sguardo e fare in modo che lei fosse ascoltata e compresa. Penso che la messa in scena si basi molto su tutte le discussioni che hanno preceduto il film. La fissità dei lunghi piani sequenza ha offerto anche uno spazio di riflessione allo spettatore. Non c’è una verità assoluta, ma chi guarda può rimbalzare le proprie certezze e attraversare le proprie emozioni. E soprattutto non avere un unico punto di vista freddo verso l’assassina”.
Saint Omer uscirà a novembre nelle sale italiane distribuito da Minerva Pictures.
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