I versi di “Profezia” di Pier Paolo Pasolini (1962) danno il titolo al primo film italiano del concorso di Roma, Alì ha gli occhi azzurri. “Dietro ai loro Alì dagli occhi azzurri – usciranno da sotto la terra per uccidere – usciranno dal fondo del mare per aggredire – scenderanno dall’alto del cielo per derubare … per insegnare come si è fratelli distruggeranno Roma e sulle sue rovine deporranno il germe della Storia antica”. Ma azzurre sono anche le lenti a contatto che Nader, figlio di egiziani, immigrato di seconda generazione, ora diciannovenne, indossa per sembrare italiano. “Il problema è che mi vergognavo di non essere uguale agli altri”, racconta Nader Sarhan, il giovane protagonista del film di Claudio Giovannesi. Nader era uno dei tre adolescenti al centro di Fratelli d’Italia, il documentario dello stesso autore, visto proprio qui al Festival di Roma nel 2009. Da quel progetto di ricerca sul territorio è nata anche questa storia di finzione, dove comunque molto stretto è il rapporto con la realtà in presa diretta. Racconta lo sceneggiatore Filippo Gavino di settimane passate a Ostia o sul trenino per Roma ascoltando questi ragazzi, non solo Nader, ma la sua fidanzatina Brigitte, l’amico del cuore Stefano e il compagno di scuola romeno Zoran, che come loro frequenta l’alberghiero con zero voglia. “Siamo stati spugne e questa è stata la parte più emozionante e imperdibile del lavoro”.
Il film racconta appunto una settimana decisiva nella vita del sedicenne Nader. Mentre i genitori non accettano che abbia una ragazza italiana – “loro sono diversi, noi siamo musulmani” – lui e Stefano rubano un motorino e derubano il gestore di un negozietto prima di entrare in classe e finiscono per mettersi contro una banda di romeni per una lite in discoteca. Mentre gli adulti sembrano troppo duri e rigidamente attaccati alle tradizioni o viceversa pronti a dare il peggior esempio come il padre di Brigitte, che gioca con un fucile (vero) come se fosse un giocattolo.
“Dopo Fratelli d’Italia – racconta il trentaquattrenne regista, già autore di La casa sulle nuvole – volevo continuare a occuparmi di adolescenza e di società multietnica in quel territorio. Ho scelto di concentrarmi su Nader perché mi era sembrato quello più in grado di rimanere vitale e spontaneo di fronte alla macchina da presa, e anche perché è quello che si sente più italiano. Però mentre nel documentario lui era ancora incosciente e dovevo solo dirgli di non guardare dentro la camera, ora c’è stato un passaggio verso la consapevolezza: lui e la famiglia hanno accettato di mettere in scena conflitti reali, la sua situazione sentimentale e anche alcuni aspetti di microcriminalità”. A Giovannesi interessa infatti l’impervio percorso dell’integrazione con le sue lampanti contraddizioni.
Per esempio Nader rivendica la libertà di fare l’amore con la sua ragazza, perché siamo in Italia, ma non accetta che la sorella possa avere una storia sentimentale. “E’ vero, ho uno stretto legame con mia sorella, anche se se mi direte che sono strano. Mentre l’hot dog lo mangio per finta, sennò mio padre si arrabbia”, racconta il giovane protagonista, che ora frequenta la scuola serale. Chiarisce Giovannesi: “Non c’è soluzione al conflitto che si porta dentro tra amore e proibizione, tra le due culture, ma la la presa di coscienza è un punto di partenza importante, la sua situazione è conflittuale ma anche ricca”. Echi della primavera araba arrivano dalla tv accesa, la protesta di Piazza Tahrir esplodeva proprio durante le riprese, ma non per Nader “che si faceva la sua primavera nel privato”.
E quanto c’è dei ragazzi di vita pasoliniani? “Con Pasolini – dice ancora il regista – condivido l’estetica di film come Mamma Roma e Accattone, il mondo marginale raccontato in modo così puro e innocente, anche se io lascio le emozioni grezze senza aggiungere la musica di Bach. Ma rispetto ai tempi che lui raccontava, seppure con sguardo profetico, oggi la società è multiculturale e consumista e Nader vive un conflitto tra la sua cultura d’origine e quella d’adozione, mentre Pasolini parlava di un’apocalisse, di un dopo storia”.
Tocca al produttore Fabrizio Mosca raccontare la difficoltà di fare il film. “Ma Rai Cinema ha subito accolto il progetto, che abbiamo girato con pochi soldi, una piccola troupe in 5 settimane. Poi Valerio De Paolis, della Bim, se ne è innamorato”. Per Paolo Del Brocco (Rai Cinema) Alì ha gli occhi azzurri “è in linea con l’idea di fare film che raccontino la nostra società, ma siamo rimasti quasi i soli a finanziare un certo tipo di cinema e sarà sempre più difficile farlo se non cambiano la politiche economiche”.
Il film, applaudito al Festival, uscirà il 15 novembre con la Bim.
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