MILANO – C’è la prigionia. C’è la Fede. C’è la figura femminile. C’è Jasmine Trinca – con il personaggio della giornalista Sara Canova, italiana che vive a Il Cairo, in Siria nel 2015 per un reportage e per questo vittima di sequestro da parte dell’Isis.
C’è la guerra nel Califfato, ma è come se fosse un cosmo esterno a quello interno della casa, quasi murata, dentro cui c’è dialogo, con un’altra donna, Nur (Isabella Nefar), cresciuta nella metropolitana Londra, ora combattente nel jihād, dopo l’incontro per lei rivelatorio con il marito mujaheddin. Per Sara, Nur è la sua “carceriera”: per Nur, Sara è l’ospite di cui prendersi cura.
La terza opera per il grande schermo di Alessio Cremonini – un film completamente girato in inglese – ha inaugurato il Concorso internazionale del XXXII Noir in Festival: l’anteprima internazionale del film, che uscirà in sala dal 26 gennaio prossimo con Lucky Red.
Alessio, la prigionia è un tema feticcio del suo cinema: la prigionia fisica, la prigionia psicologica. Perché le appartiene e perché sente la necessità di portarlo nelle sue storie ?
Le esigenze personali sono sempre complicate da razionalizzare, credo un po’ perché in fondo quando tu fai un qualcosa che gli altri vedono (o leggono) tu imponi una ‘prigionia’ allo spettatore o al lettore: si tratta di una prigionia da cui puoi solo uscirne, ma addirittura è una prigionia che ti può cambiare la vita, come la visione di certi film; le prigionie non sono sempre negative, se pensi che San Francesco è proprio durante la prigionia che ha la sua conversione; o anche i monaci, gli eremiti si auto-costringono a una prigionia, e anche la riflessione può essere una prigionia. Ma nel caso del film l’accezione è terribile: io credo che le donne, le femmine anzi, purtroppo… vivano diverse prigionie e spesso le società – tutte… – si sono formate su una costrizione più o meno latente, più o meno evidente dei desideri e del corpo, come riflettono i femminicidi nel nostro Paese, il cui numero rispecchia quello di un attentato, è terrorismo, inteso come l’infliggere una paura, anche se non ti dovesse succedere mai niente. E la prigionia poi implica il corpo e usualmente è il corpo delle donne a essere quello più ricorrente, penso all’infibulazione o allo sfruttamento dello stesso, o alla mortificazione nel nasconderlo: il nigab o il burka significano tenere nascoste le donne.
Un altro tema, che parte del personale, e che arriva nel film, è la Fede: lei, Alessio, è credente e il soggetto fa parte di quelli cardine di Profeti.
Io ho scritto parte di questo film mentre facevo la chemioterapia, per un tumore scoperto un mese dopo l’uscita di Sulla mia pelle, e c’è una battuta nel film, che dice Jasmine: ‘come si fa a convertirsi se sei sotto la minaccia della morte?’. Noi tutti siamo sotto la minaccia della morte, è un ricatto per come la vedo io. Io sono un credente in feroce dialogo con chi gestisce la religione, la Fede è un’altra questione, è anche una dimensione di vita. L’Islam a me affascina moltissimo: moltissimi anni fa è stato rapito Don Paolo Dall’Olio, proprio dall’Isis, e lui era davvero quello che in politica una volta si sarebbe detto ‘un pontiere’, faceva davvero da ponte, aveva un grande dialogo con l’Islam. Spesso, inoltre, c’è un uso strumentale che alcuni politici fanno della religione, brandendo croci come se fossero imbonitori del Medioevo, invece bisogna parlarsi e a me affascina molto la religione musulmana che ha una cosa, in cui non credo ma che ammiro: la sua purezza; noi abbiamo la trinità, che è stupenda, ma l’idea islamica che la felicità stia nella sottomissione è una visione che mi affascina, quella di un Dio intangibile ma puro, come un’essenza, che non puoi nemmeno dipingere. E spero che nel Mediterraneo, e nei territori prossimi, riprenda a essere qualcosa di più unito.
L’essenzialità, la franchezza, la sottrazione sono tratti che caratterizzano Profeti, così come la musica è quasi del tutto assente, con molto affidamento al suono diegetico; anche il dialogo – fondamentale – è circoscritto e tutta la potenza vive nel volto di Jasmine Trinca.
Per me il cinema è un’indagine, quasi da entomologo; a me piace come strumento per capire. Non amo il barocco, non amo – anche da spettatore – il troppo movimento: spesso i registi amano mostrare una certa mascolinità, per cui fanno carrelli incredibili quando non ce n’è bisogno. La musica è di Benjamin Britten, che il divino Bergman usò per Fanny e Alexander, mi riferisco a quelli che s’identificano in effetti come suoni dell’ambiente; mentre nel finale è un lamento, da Bach. Mi piace quando il cinema se ne frega di essere spettacolo e cerca i ritmi della vita, certo è un cinema particolare, anche difficile da sostenere. La radicalità sta nell’essenza.
E la scelta di Jasmin Trinca – già Ilaria Cucchi in Sulla mia pelle – come è avvenuta?
Io amo Jasmine, ho una venerazione per lei. È un’attrice di grande coraggio: in fondo, ‘perché fare un film del genere?’. È il coraggio di una che sta mesi a lavorare poi sul progetto. Quindi, chi se non Jasmine? Chi si mette otto ore sotto una coperta nella polvere e ci si mette davvero perché deve entrare nella storia? Jasmine ha intelligenza, grazia, e non è retorica; amo il suo essere collaterale, il non essere per forza sui social, trovo che la sua riservatezza sia di grandissima utilità e sia un valore aggiunto.
La resa filmica del luogo – che mette in scena un campo del Califfato – è uno specchio molto realistico, insieme alla fotografia: dove sono state fatte le riprese del film?
Per questioni di budget, di periodo pandemico, avevamo identificato Sicilia, Sardegna o Puglia e alla fine s’è scelta questa regione, trovando questa cava, dove abbiamo ricostruito tutto, anche la casa – in cui resta prigioniera Sara -, e il dop è lo stesso, non a caso, di Garage Olimpo, a proposito di ‘prigionia’: Ramiro Civita.
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