“Sono partito dal microcosmo della malavita, ora metto in scena la piccola borghesia, un altro girone di quella città schizofrenica e promiscua, al confine tra il paese e la metropoli, che è Bari”.
Alessandro Piva usa parole dal vago sapore dantesco per parlare di Mio cognato, film che arriva dopo il piccolo miracolo Lacapagira, low budget in 16mm tutto barese, che nel 1999 stupì la critica e l’anno successivo vinse un David di Donatello.
Così per la sua opera seconda, scritta con il fratello Andrea e Salvatore De Mola, Piva può contare su una macchina produttiva più solida (Dada Film, Rai Cinema), un budget di circa 2 milioni e mezzo di euro e due tra gli attori più noti del cinema italiano: Sergio Rubini e Luigi Lo Cascio.
Nei panni di Toni e Vito, cognati dai caratteri opposti, danno vita, racconta il regista, “a un intreccio realistico e grottesco, crudo e onirico che si rispecchia nella fotografia di Gian Enrico Bianchi, un’alternanza di toni solari e lividi, riflessi di una città ricca di chiaroscuri”.
Dici che il tuo film è vicino al racconto di formazione classico. Perché?
Perché mette in scena il confronto tra due uomini molto diversi che dà la possibilità a quello meno esperto di scoprire nuovi aspetti del sé e della vita. I protagonisti sono prototipi della borghesia meridionale. Sergio Rubini è Toni, l’avventuriero che vota il partito che più gli conviene, l’affarista che vuole tutto e subito, roso dall’ansia della scalata sociale ma privo dello stile e della pazienza di aspettarla. Vito, Luigi Lo Cascio, è un borghese più modesto ma non meno inquietante. Ha la stessa bramosia di Toni ma qualche autocensura in più che ne tarpa le ambizioni. La vicinanza con il cognato fa suonare le sue corde più profonde e nascoste.
Come sei arrivato a Rubini e Lo Cascio?
La scelta di Rubini era quasi obbligata. E’ nato a Grumo Appula, un paese della provincia barese, dunque in grado di cogliere perfettamente le caratteristiche del suo personaggio. Anche quelle che dichiara di detestare ma senza riuscire a separarsene del tutto. Lo Cascio gode di una straordinaria notorietà. Sul set si sono innamorati l’uno dell’altro sviluppando una simbiosi che mi ha reso più facile il lavoro. Tra loro vedo una singolare somiglianza fisica che fa gioco alla trama: due personaggio apparentemente lontani ma legati da una parentela di fondo. La scommessa finale è farla emergere.
Ancora una volta usi la m.d.p. come una lente di ingrandimento per guardare Bari.
Si. Racconto la mia città a partire dalle periferie, da strade e piazze poco battute che tuttavia rispecchiano appartenenze e contraddizioni globali. La novità è che la ricchezza di suoni, scenari e identità locali è mediata dai volti di due attori noti. Nel loro percorso incontrano le facce autentiche del serbatoio attoriale barese da cui ho attinto per Lacapagira.
Da quel serbatoio avevi ripreso anche la lingua, un barese tanto stretto da aver bisogno dei sottotitoli. E’ così anche questa volta?
No. In Mio cognato la ricchezza espressiva del dialetto si innesta nel tessuto più rigido della lingua ufficiale. E’ un italiano con venature dialettali interrotto da sciabolate incomprensibili. Nelle strade baresi si parla un idioma che Vito non capisce e, come lui, gli spettatori colpiti dall’arma dell’incomprensibilità. Il deragliamento linguistico diventa così un’opportunità per cogliere la complessità del mondo.
Ne “Lacapagira” mettevi in scena una società solo maschile…
Qui invece i personaggi femminili sono meglio delineati per dare un quadro più completo dell’ambiente industrial-paesano di Bari. Un tentativo che spero venga riconosciuto dalle spettatrici.
Che cosa manca al cinema pugliese, quello di Piva e Winspeare, per diventare un movimento?
Manca una sinergia tra artisti e istituzioni. La Puglia di oggi non è la Napoli di 10 anni fa, quella dei Martone, Capuano e Corsicato. Da noi non esiste neppure una Film Commission operativa. In queste condizioni Winspeare e io siamo solo due artisti europei che resistono all’omologazione guardando con onestà ciò che conoscono bene.
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