Alessandro D’Alatri: “Ora divento autarchico”


A.D'alatriCon la solita verve controcorrente Alessandro D’Alatri incontra gli allievi dell’ ACT Multimedia, la scuola di cinema di Cinecittà, che hanno appena finito di vedere il suo secondo film, Senza pelle del 1994. Giovani aspiranti filmaker ascoltano la sua “lezione” informale, mentre subito fuori ragazzi anche più giovani si preparano a fare un provino con il coreografo Daniel Ezralow. “E’ un mio vecchio amico”, confida a CinecittàNews il regista romano. E non avete mai pensato di fare un musical insieme, chiediamo. “Mi piacerebbe molto, moltissimo, ma il musical in Italia non funziona, mentre all’estero è tornato in grande stile. Proprio adesso, qui a Cinecittà, stanno girando Nine“. In effetti gli studios sono in subbuglio per il set del film di Rob Marshall, storia del regista Guido Contini, e del suo rapporto con le donne della sua vita (la moglie Luisa, l’amante Carla, la sua musa Claudia e la defunta madre, che gli appare sotto forma di fantasma) sulla falsariga di Otto e mezzo di Fellini.

 

In attesa di un musical italiano a cosa sta lavorando?

A due anni da Commediasexi, vorrei fare un film contro tutte le regole dell’industria italiana, un’industria che non c’è… Quindi senza attori che garantiscono il budget, fuori dal ricatto di dieci nomi che alzano i costi in modo immorale e rendono il nostro cinema sempre uguale a se stesso. Sarà un film autoprodotto con la mia società, la Buddy Gang.

 

In che senso parla di industria che non c’è?

Nel 2008 ci sono stati tre film segnale: Gomorra, Il divo e Pranzo di Ferragosto: questi autori hanno mostrato indipendenza, capacità di esplorare nuovi linguaggi e sono piaciuti al pubblico, alla critica e ai festival. Ma il sistema ha fatto finta che non sia successo nulla e continua a omologarsi alla fiction. I grandi errori di questo paese per me sono tre: l’omissione, la semplificazione e l’omologazione, quello che io chiamo “OSA”.

 

Da cosa dipende?

Dal meccanismo perverso dello Stato che finanzia l’arte. Lo Stato, secondo me, dovrebbe uscire dalla cultura. Il cinema si può fare con i capitali privati, a patto di garantire una detassazione totale di quegli investimenti, un tax shelter vero.

 

Adesso c’è un’esplosione di film a basso budget, in digitale, completamente indipendenti. E’ un fenomeno interessante.

Finalmente. Anch’io vorrei lavorare così. Metterci anche sei mesi a girare un film, sperimentare. Se vedo un bel tramonto e non ce l’ho nel piano di lavorazione, mi fermo lo stesso a riprenderlo. Il film di Tummolini è costato 100mila euro e adesso è al Sundance: sono indicazioni da tenere d’occhio. Invece se andiamo a vedere l’opera seconda dei vincitori del David per l’opera prima, troviamo dei film troppo condizionati da troppi fattori.

 

Lei si è sempre divertito a scompaginare le carte con i suoi attori, andandoli a cercare anche nel mondo televisivo.

E’ vero. Kim Rossi Stuart lo scelsi per Senza pelle quando era famoso per Fantaghirò e nessuno credeva che potesse essere un bravo attore drammatico; in Fabio Volo ho visto una capacità rara di mostrare la fragilità maschile che ho usato prima in Casomai e poi con La febbre, mentre mi sembra che adesso continui a fare un po’ sempre lo stesso ruolo. Anche Bonolis l’ho chiamato perché aveva la perfetta faccia di bronzo del politico italiano. Ma nel mio prossimo film cambio musica: userò attori completamente sconosciuti. 

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28 Gennaio 2009

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