Isabelle Huppert è protagonista del film più europeo del concorso Cinema 2007 del Festival di Roma: L’amour caché diretto dall’italiano Alessandro Capone, ma prodotto – su impulso del nostro Massimo Cristaldi – con Belgio e Lussemburgo e recitato interamente in francese. Un dramma borghese in cui la protagonista Danielle è una donna ricoverata in una clinica dopo tre tentativi di suicidio a causa di un impossibile rapporto con la figlia Sophie (Mélanie Laurent), che odia con dolore. Ad aiutarla sarà la psicologa dott.ssa Nielsen (Greta Scacchi), che la libererà dal suo problema aiutandola ad esprimersi attraverso le parole scritte. Il regista ci parla del suo quarto film, arrivato dopo un esordio con un “B-Movie” horror americano e tanto teatro e televisione.
Che tematiche affronta in L’amour caché?
Metto a fuoco un argomento difficile e spinoso: una madre che odia la figlia. E’ un tabù, non è permesso parlarne, anche se accade più spesso di quanto non si pensi, e anche se purtroppo è di grande attualità il tema delle madri che uccidono i propri figli. E’ più facile raccontare in un film situazioni in cui ci sono, ad esempio, bambini handicappati, che non narrare un dramma borghese in cui si affronta la conflittualità del rapporto madre-figlia, molto più negata di quella tra padre-figlio.
Qual è lo spunto da cui è nato il film?
Il film è tratto dal romanzo “Madre e ossa” della francese Danielle Girard, edito in Italia da Baldini&Castoldi e non pubblicato in Francia. Non volevo alterare lo spirito del romanzo e mi sono limitato a scavare in ciò che già c’era nella storia di Danielle, raccontando la malattia con delicatezza. Sicuramente la difficoltà più grande è stata data dal fatto di narrare, da uomo, una storia tutta al femminile, e in più sulla maternità.
L’amour caché è un bell’esempio di “film europeo”.
Si parla sempre di Europa, ma poi non si fa mai abbastanza. In questo caso c’è stata la partecipazione di quattro paesi, Italia, Francia, Belgio e Lussemburgo, con un cast artistico fatto quasi interamente di francesi e uno tecnico molto italiano, con Luciano Tovoli alla fotografia e Roberto Perpignani al montaggio. I diversi pezzi di lavorazione sono stati distribuiti tra le varie nazioni. Nonostante io sia italiano, non si può dire che il film sia italiano, visto che è girato in francese. Ma sarebbe riduttivo anche dire che è francese.
Quali sono i suoi punti di riferimento cinematografici?
Più che di ispirazione o riferimenti, parlerei di ciò che appartiene alla mia memoria filmica: Bergman, Truffaut, Dreyer sono i registi che amo da sempre, e probabilmente è da loro che ho assorbito di più. Il punto di vista visionario di Ingmar Bergman è forse quello più vicino a questo film.
Come ha convinto Isabelle Huppert a partecipare al film? E come ha lavorato con lei?
Non è stato facile averla nel film. Ho pensato a lei sin da quando ho letto il libro, ma era riluttante perché aveva già avuto a che fare con ruoli di madri problematiche, come in La pianista di Michael Haneke. Poi ha letto e riletto la sceneggiatura e si è convinta, e sul set ha dato moltissimo. Più che di cosa dire in scena, discutevamo su cosa è il dolore, e come farlo arrivare al pubblico.
Quando vedremo il film nelle sale?
In Italia l’uscita è prevista, mentre per la Francia ancora non sappiamo nulla. Quello transalpino è un cinema molto chiuso, e il fatto che il regista sia italiano crea dei problemi.
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