Uno dei grandi monumenti dell’arte mondiale, la Nona di Beethoven, fatto a pezzi come in un kit di montaggio, in un film labirinto che sembra un ibrido tra un disegno di Escher e una favola dei fratelli Grimm. Alessandro Baricco diventa regista. Un regista di lusso, come testimonia Lezione 21 col suo budget da 5 mln di euro e le immagini ricercate e originali costruite con la consulenza di Tanino Liberatore, il papà di Ranxerox. Locarno l’ha scelto per la Piazza Grande e adesso lo scrittore torinese scruta il cielo sopra il lago, dove si addensano nere nubi, sperando che non piova perché questo debutto sia come una prima teatrale. Ma già sente di aver superato il primo esame: proiezione per la critica affollata, interesse e curiosità attorno a questo oggetto misterioso, difficile da mettere in relazione con altri film italiani, come dice con assoluta sincerità Domenico Procacci che l’ha prodotto insieme a Rai Cinema e agli inglesi. Da noi uscirà a metà ottobre, all’estero chissà dove e quando. Il percorso internazionale inizia proprio da Locarno, “festival che ci è sembrato ideale perché non conosce l’isterismo solito ed è un’oasi dove si può vedere un film per quello che è”. E’ sempre Procacci a parlare. Ed è lui ad aver immaginato recitate in inglese queste storie che sanno di leggenda a partire dal dato storico della composizione della più celebre e osannata sinfonia di Ludovico Van. Un’opera che Baricco ha visto come un duello tra il compositore, ormai totalmente sordo, depresso e isolato, e i suoi contemporanei. “L’inglese è una lingua più astratta e il film è astratto, non ha una collocazione fissa nello spazio e nel tempo”. Così ecco John Hurt nei panni dell’anziano e geniale professore Mondrian Killroy, Leonor Watling (la spagnola “cadavere” in Habla con ella) in quello della sua allieva prediletta che ricorda parola per parola la famosa Lezione 21, Noah Taylor (quello di Shine, film abissale sulla musica) nel ruolo criptico del violinista che viene ritrovato assiderato su un lago ghiacciato a trenta chilometri da Vienna nell’inverno del 1824, anno della prima esecuzione dell’ultima sinfonia, Inno alla Gioia compreso.
Baricco, non è chiaro se lei voleva fare a pezzi Beethoven oppure costruirgli un monumento in cui esprimere tutta la sua sconfinata ammirazione.
Quello che non mi piace è l’immagine di Beethoven tramandata nella cultura ufficiale. Volevo esercitare uno sguardo laico e non sottomesso sul suo capolavoro, che fin da piccoli ci insegnano a osannare. E penso che si debba fare lo stesso anche per il Partenone, le tragedie di Euripide, l’Ulisse di Joyce. Il professor Mondrian Killroy usa la categoria del sopravvalutato, io penso semplicemente che invece di guardare queste opere di fronte, bisognerebbe spostarsi di fianco, scoprire dove la struttura si sgretola, dove c’è il difetto, per trovare una bellezza più vera.
Il professor Killory se la prende soprattutto con l’Inno alla Gioia.
Schiller, che ne compose il testo, lo pensò come un inno massone: Beethoven lo coniugò col kantismo da birreria e col suo spirito illuminista, non ancora romantico. Pero nel 2008 farne un inno religioso mi lascia allibito e mi disturba la sottolineatura dell’aspetto buonista della Nona usata mentre tiravano giù il Muro di Berlino. Viene in mente che lo usavano anche i nazisti, perché rimandava alla nascita di una comunità nuova.
Ha citato tra le sue fonti cinematografiche Sergio Leone e Hou Hsiao Hsien, anche se vedendo il film viene piuttosto in mente Peter Greenaway.
Già mi sono un po’ pentito delle citazioni, da debuttante sarebbe meglio non dire niente, evitando il ridicolo. Però è vero, amo Millennium Mambo, perché é un film fatto da un dio che accende lo sguardo e aspetta che il mondo passi lì davanti. Mentre Sergio Leone mi piace quando dice: “Di tutti i film ci portiamo a casa una sola frase”. Giu la testa, coglione, per esempio.
Perché tanti scrittori, spesso di grande successo, si mettono a fare film rischiando anche molto, come è capitato con un film visto qui a Locarno, “La possibilità di un’isola” di Michel Houellebecq?
Perché noi dei libri invidiamo il cinema, che sta al centro del sistema nervoso, come ci stava il romanzo nell’Ottocento. Noi ora siamo stati sbattuti più in periferia, anche se ci è rimasto, come privilegio, la libertà di essere più acuti e scomodi. Però sono pochi gli scrittori che riescono veramente a fare quel gesto che porta da un universo all’altro: Paul Auster è uno dei pochi.
Si poteva fare, questo film, con attori italiani?
Si poteva fare, ma Domenico l’ha subito immaginato in inglese e questo ci permetterà anche di distribuirlo meglio. Io poi, istintivamente, do quasi sempre ai miei personaggi nomi non italiani, forse per trovare una maggiore distanza. All’inizio avevo addirittura pensato a usare attori dell’Est che usassero un inglese sgrammaticato, come in una Torre di Babele.
Cosa la affascina della vecchiaia, che occupa i suoi pensieri da due libri a questa parte e in questo film torna come uno dei temi chiave?
Mi chiedo cosa ne è dei sentimenti, della passione e del sesso quando la bellezza scivola via dal tuo corpo e dal corpo di chi ami. In fondo tutto il film si può vedere come la preparazione all’ultimo discorso di Mondrian Killroy alla sua allieva: spiegandole il segreto di Beethoven le spiega come mai lui e lei non sono finiti a letto insieme.
Che rapporto ha con il cinema italiano contemporaneo: si sente un alieno o condivide qualche forma di vicinanza?
Lo seguo molto e considero certi registi dei compagni di strada: ne ho conosciuti molti, lavorando con la Fandango, e sono contento che siano riusciti a produrre degli autentici capolavori, come Gomorra e Il divo. Anche se il mio cinema è totalmente diverso, io non mi sento affatto lontano da loro.
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