Alberto D’Onofrio, ex collaboratore di “Mixer” che realizzò il discusso documentario La sindrome del Golfo, torna con un nuovo progetto: Erotika, viaggio nel mondo della sessualità in 15 episodi. Il documentario sarà presentato in occasione della rassegna di due giorni che il Cinema d’essai Edison di Parma dedica al regista il 13 e 14 ottobre alle 21. Trasmesso da Cult Network Italia a partire dal 20 ottobre tutti i giovedì alle 22, Erotika è un racconto sull’erotismo globale come forma di comunicazione e liberazione sessuale, ma anche come sguardo sul corpo-merce. Ma D’Onofrio non si accontenta di narrare vita e scelte della gente, vuole entrarci dentro e mostrare le esistenze dei suoi protagonisti senza remore. Un regista che vuole raccontare senza aggredire lo spettatore: non usa parole ambigue ma solo la potenza dell’immagine. Un modo d’intendere il documentario che, a detta dello stesso D’Onofrio, è in disuso perchè “fare documentari oggi serve solo a metterne l’autore sotto i riflettori”. E le critiche non si fermano ai vari Moore e Guzzanti ma arrivano diritte ai distributori italiani.
Cos’è esattamente questo “Erotika”?
E’ il mio quarto documentario seriale sul mondo dell’erotismo. Volevo raccontare la vita di persone che compiono scelte estreme senza cadere nei cliché, rischio sempre presente quando tratti temi come questi. E’ una co-produzione DNA International/Cult Network Italia che va oltre la morale, oltre l’oscenità ed i luoghi comuni. Un lavoro girato con il linguaggio e lo stile narrativo del cinema-verité che mescola personaggi famosi e gente comune in un viaggio erotico costituito da storie di persone, eventi e fenomeni che caratterizzano l’immaginario sessuale.
Perché tanto attaccamento alla forma seriale? Aiuta a raccontare?
Mi piace molto lavorare su un progetto per anni. Adoro la struttura delle storie parallele. E’ qualcosa che ho imparato ai tempi in cui collaboravo con “Mixer” e Giovanni Minoli quando eravamo un team di persone che realizzavano documentari su temi diversi. Ognuno ne girava uno e quello che piaceva di più veniva premiato con dei seguiti. Nel caso di Erotika questa struttura narrativa mi ha permesso di raccontare realtà diverse come quella di Rebecca Lord, la pornodiva che finisce col sposare il suo primo fidanzato in Amore a luci rosse, o di Peter Cszernick il fotografo creatore della più prestigiosa e patinata rivista fetish, che in Germania viene distribuita solo nei pornoshop perché bollata come magazine pornografico in Marquis.
Quindici episodi sembrano molti. Non teme di farsi prendere la mano dalla serialità?
No, perché ti accorgi quando la storia non va più avanti per motivi produttivi o perché non c’è più niente da raccontare, perchè finisce il materiale. Non inizio mai un lavoro dicendo “su questo giro 10 puntate”. Vedo prima quello che succede durante la lavorazione. Le decisioni le prendo mentre giro, a mano a mano che il documentario prende forma. E un progetto sull’erotismo è ancora più impossibile da pianificare.
Perché è più problematico da girare visto il tema?
Beh, sì. In generale sto sempre attento a evitare che i protagonisti scimmiottino se stessi a un certo punto. Ma in questo caso è ancora più difficile. Serve maggiore attenzione. Mi piace molto entrare nella vita della gente, ma come un ascoltatore silenzioso. Non devi forzare niente se vuoi fare un vero documentario ma devi anche sapere quando intervenire. Un po’ quello che succede in Bedroom Budapest, documentario sulla realizzazione di un film lesbo porno. Una situazione non facile. Il lavoro che realizzo alla fine deve essere qualcosa che non aggredisce lo spettatore perchè Erotika è un’opera sull’idea mentale di erotismo che differisce in ognuno di noi. Non mostra niente per piacere voyaristico. Non usa linguaggi ambigui ma solo la forza dell’immagine.
“Fahrenheit 9/11”, “Super Size Me”, “Viva Zapatero!”: sono stati successi di pubblico e critica. Contento del periodo positivo del documentario?
Non credo siano documentari nel vero senso del termine. Per me il documentario è un film fatto da un regista che però non mette in scena se stesso. Non si vede mai dall’altra parte della telecamera. E’ un errore confondere questo tipo di film, che pure sono fatti bene e ho apprezzato, con il documentario. Moore e la Guzzanti poi sono personaggi tv, comici, insomma gente abituata a stare sotto i riflettori. Assolutamente agli antipodi dai documentaristi, che raccontano diventando invisibili. Lasciando parlare immagini, fatti, protagonisti. Dire che questi sono documentari è un errore alla stregua di dire che girare documentari è una scuola di cinema. Assurdità che sento spesso.
E’ vero però che il mercato sembra più interessato al genere ultimamente.
Se i lavori di Moore e Guzzanti servono agli autori italiani, a far crescere l’interessamento della gente ben vengano. Altrimenti non aiutano il genere. Chiaramente non è colpa loro, ma dei distributori italiani che dovrebbero smettere di comperare e distribuire solo lavori stranieri quando ci sono tantissimi film italiani che aspettano di arrivare in sala, o peggio tanti registi che non riescono neanche a realizzare il film che vogliono perché non hanno i fondi. Il fatto è che spesso i festival non bastano ad aiutarti nella distribuzione e che sovente i distributori non comperano niente che non abbia vinto un premio o non sia già su pellicola 35 mm. E anche nel caso in cui tu abbia i fondi per girare il film che vuoi non è detto che poi riuscirai a venderlo, o meglio, è probabile che una volta realizzato il regista diventi schiavo del mercato e delle sue regole perché si ritrova con un lavoro in mano da vendere e distributori che fissano il prezzo in una gara al ribasso.
Qualche consiglio allora?
Vendere i diritti per l’Italia così puoi finanziarti l’opera che vuoi. E con in mano i diritti su estero e Dvd non sei costretto a svendere il tuo lavoro. Io faccio così da anni.
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